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Paolo Borsellino, ventidue anni senza la verità

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“Potrò non vederla la verità ma ne pretendo la ricerca, per dare un senso alla vita di chi è morto per questo”: sono parole pronunciate in più occasioni da Lucia, figlia di Paolo Borsellino, il magistrato ucciso ventidue anni fa a Palermo, in via Mariano D’Amelio. Il 19 luglio nell’anno 1992 cade di domenica: una domenica bella e assolata di quelle che solo la Sicilia è in grado di regalare. Palermo è semideserta, molti sono già in vacanza oppure fuori città per una gita al mare. Una bella domenica da vivere e respirare a pieni polmoni fino in fondo, non certo un giorno in cui pensare di morire. Non che ci siano giorni più adatti di altri per morire, ovviamente, ma in quella bella domenica d’estate è ancora più stridente il contrasto tra la vita e la morte.
Se soltanto si pensa a questo lacerante conflitto e alla mancanza di senso dopo tutti questi anni, allora si comprende meglio come l’appello di Lucia Borsellino esprima quella ricerca che solo può servire di consolazione a quanti hanno perso i propri cari in un modo così violento e terribile.

Una strage, quella di via D’Amelio, che ancora oggi, dopo ventidue anni si presenta come misteriosa e indecifrabile.
Con Paolo Borsellino – quando mancano due minuti alle 17.00 – saltano per aria i suoi “angeli custodi”, gli agenti della polizia di Stato Emanuela Loi, Eddie Walter Cosina, Claudio Traina, Agostino Catalano e Vincenzo Li Muli. Altre vite recise senza senso, altre famiglie gettate nella cupa disperazione del dolore.
Dopo la strage, parte la gestione della fase successiva, delicata per i suoi risvolti inerenti alla tenuta delle istituzioni della nostra Repubblica. Infatti, ora che Borsellino è morto, tutto sembra scivolare rapidamente verso uno scontato esito finale: l’onore ai caduti, la reazione – finalmente – dello Stato, la cattura dei responsabili e il loro successivo processo, secondo le regole dello Stato di diritto, ci mancherebbe..
E invece, ma lo abbiamo capito soltanto oggi, dopo ventidue anni, le cose sono andate diversamente, sicuramente non come ci sono state raccontate fin qui.

Prove trovate, prove sparite

I primi momenti successivi alla strage sono fondamentali.
Passa appena un’ora e già l’agenzia ANSA rilancia nelle redazioni la notizia che a provocare la morte del giudice e della scorta è stata un’autobomba, una Fiat 600 che poi diventerà nella ricostruzione finale una Fiat sì, ma 126. Come si sia potuta fin da subito essere accreditata questa tesi, dopo ventidue anni è ancora un mistero. Come era possibile una tale precisione a pochi minuti dall’accaduto?
Sono state le forze dell’ordine presumibilmente a parlare del rinvenimento del blocco motore della vettura. Peccato che le foto e le riprese dell’epoca non abbiano permesso di individuare sul luogo dell’eccidio l’ingombrante reperto. Ingombrante reperto che farà la sua comparsa soltanto il giorno dopo all’ora di pranzo al fianco della Croma azzurra della scorta del giudice. Viene trovata lì, in mezzo alla strada, quasi appoggiata sull’asfalto, mentre per la forza d’urto avrebbe dovuto per lo meno impattare violentemente la vettura di scorta.

E che dire della targa che viene ritrovata solo il 22 luglio?
Come è possibile che sia potuto accadere che prove cruciali siano state fatte sparire, come la famosa agenda rossa di Paolo Borsellino dal luogo del delitto, oppure altre, come il blocco motore e la targa abbiano fatto la loro comparsa soltanto in seguito?
Come si concilia tutto questo “vidiri e svidiri”, per usare la celebre espressione di Andrea Camilleri, con la disposizione dell’autorità giudiziaria di repertare tutto quanto fosse stato rinvenuto sulla scena del crimine? Incongruenze o anomalie, oppure un vero e proprio depistaggio?
Circostanze queste emerse solo negli ultimi anni e che serviranno forse, unite ad altre prove, a darci quelle risposte che dal lungo iter processuale fin qui esperito non sono arrivate.Solo oggi, forse, con la celebrazione e l’esito del cosiddetto “Borsellino quater” si potrà arrivare più vicini alla verità.
ll “nuovo Buscetta”

Sicuramente l’aspetto più inquietante è però dato dal pieno valore attribuito alla collaborazione di Enzo Scarantino, un piccolo spacciatore della Guadagna, senza arte né parte, che di colpo diventa l’asso nella manica, l’uomo in grado di inchiodare alle loro responsabilità i boss della mafia che hanno deciso l’eliminazione di Borsellino.
E qui il dubbio è diabolico e comunque lo si voglia risolvere tale da minare la credibilità dello Stato.
Resta da capire, infatti, se i funzionari della polizia di Stato, membri del gruppo “Falcone-Borsellino” e guidati dal questore Arnaldo La Barbera, siano stati annebbiati nel loro procedere dal dolore e dalla rabbia per i colleghi persi nella strage e quindi abbiano accelerato i tempi nel chiudere il cerchio attorno a Scarantino, ricevendo in cambio delle propalazioni funzionali a processare il gotha di Cosa Nostra e non siano andati troppo per il sottile nel testarle.

Oppure, secondo l’ipotesi più terribile ma in via di ulteriore accertamento in questi ultimi anni, non abbiano inteso cucire addosso al picciotto della Guadagna un ruolo improbabile di “nuovo Buscetta”, aiutandone la memoria con adeguate istruzioni, anzi, stando a quanto denunciato dallo stesso Scarantino, coartandone la volontà con minacce e violenze. Proprio per induzione alla calunnia di Scarantino e degli altri falsi pentiti Candura e Andriotta sono indagati a Caltanissetta tre componenti l’allora gruppo “Falcone – Borsellino”, Vincenzo Ricciardi, ex questore di Bergamo e adesso in pensione, Mario Bo, in servizio alla Questura di Gorizia e Salvatore La Barbera della Criminalpol di Roma.
Del resto non si riesce a capire le ragioni della loro presenza periodica nella località protetta dove Scarantino era sotto tutela, a meno di prendere per buone le parole rese da Bo, nel corso del controinterrogatorio durante il Borsellino bis: “Quello che si può adombrare nell’assistenza fatta dal gruppo Falcone – Borsellino era un’assistenza di tipo umanitario. Frequentemente il nostro apporto era di tipo consolatorio”.
“Missioni umanitarie” quindi, iniziate quando Scarantino era rinchiuso al 41 bis, nel carcere di Pianosa e continuate poi dopo, senza che vi sia traccia precisa nella documentazione di servizio. Scarantino viene indotto a riversare le responsabilità maggiori della strage sulla cupola di Cosa Nostra e, per quanto attiene alla logistica dell’eccidio, sulla famiglia di Santa Maria di Gesù. Viene risparmiato dal suo furore propalatore il clan di Brancaccio, guidato dai fratelli Graviano, invece indicati dal nuovo collaboratore Gaspare Spatuzza come il braccio criminale che colpì Borsellino e i suoi in quel 19 luglio.

Resta da capire come si sia potuto prestare così tanto credito ad un falso collaboratore come Scarantino in distinti gradi di giudizio e come le perplessità di alcuni magistrati, tra cui quelle di Ilda Boccassini, messe “nero su bianco”, abbiano comunque fatto fatica per trovare ingresso nel corso dell’intricato iter processuale, al pari dei verbali di tre confronti sostenuti da Scarantino con altrettanti collaboratori – Salvatore Cancemi, Santo Di Matteo e Gioacchino La Barbera – dai quali sarebbe uscito completamente ridimensionato e sbugiardato.

Dopo ventidue anni dopo, ben quattordici processi, tra cui quattro celebrati presso la Corte di Cassazione dal 1996 al 2008 e innocenti che si sono fatti quasi vent’anni di carcere, tutto da rifare.
Si riparte da capo? Nonostante lo sconforto prevedibile, la risposta è doverosamente negativa.
E non solo per una aprioristica fiducia nella possibilità che la giustizia alla fine faccia il suo corso e si trovi la verità, ma piuttosto perché i riscontri negativi fin qui registrati e la stessa vicenda imperniata attorno alla deviata e deviante collaborazione di Scarantino può aiutarci molto nella comprensione di quanto è avvenuto il 19 luglio del 1992.

 

Depistaggi e trattative

“La realtà dell’altro non è in ciò che ti rivela, ma in quel che non può rivelarti. Perciò, se vuoi capirlo, non ascoltare le parole che dice, ma quelle che non dice”.
Il famoso aforisma è del poeta e filosofo Khalil Gibran che, sebbene non si sia mai occupato di mafia, da attento conoscitore dell’essere umano, ci indica una possibile chiave di lettura.
In tutti questi lunghi anni mass media e opinione pubblica si sono focalizzati, giustamente, sulle parole dei collaboratori di giustizia e degli addetti ai lavori. Stando alle ricostruzioni più in auge fino a qualche anno fa, Borsellino sarebbe stato ucciso perché stava indagando su Capaci prima, sui grandi appalti poi e perché avrebbe costituito per Cosa Nostra una minaccia incombente se avesse assunto il ruolo di procuratore nazionale antimafia. Stando a questa lettura accreditata per quasi due decenni, Cosa Nostra, pur di evitare i guai derivanti dall’azione investigativa di Borsellino, avrebbe messo in conto una seconda strage, dopo quella di Capaci, nonostante fosse consapevole di scatenare la reazione dello Stato, rappresentata in particolare dal varo definitivo del 41 bis, il “carcere duro”.

Poi è arrivato Gaspare Spatuzza, arrestato nel 1997 ma solo dopo un decennio pronto a collaborare con la giustizia e ad offrire una nuova lettura dei fatti, a partire dalle accuse rivolte a sé stesso per la strage di via D’Amelio. Le sue rivelazioni hanno illuminato di luce nuova altri frammenti di verità già presentati da altre collaborazioni di uomini d’onore pur precedenti, ma fino ad allora ridotte nell’effetto processuale per la presenza sulla scena di un totem intangibile quale Scarantino, nonostante le ritrattazioni dello stesso. Anche il controverso contributo di Massimo Ciancimino ha accelerato lo showdown che ha portato ad una nuova pista investigativa e alla probabile revisione del Borsellino bis. Eppure, in tutti questi anni, sono stati più pesanti i silenzi degli uomini dello Stato che le parole dei collaboratori. Qualcuno ha avuto reminiscenze dell’ultima ora, come l’ex ministro Claudio Martelli o l’ex presidente dell’antimafia Luciano Violante. Molti, troppi, sono rimasti in silenzio. Almeno fino ad ora. Attualmente sono in corso di svolgimento due processi importanti chiamati a portare avanti la comprensione dell’accaduto prima ancora che l’accertamento della verità. Da un lato il processo sulla trattativa tra mafia e Stato a Palermo, dall’altro il Borsellino quater iniziato nel 2013 a Caltanissetta.

Inutile dire che un processo è legato all’altro. Se non si farà luce su quanto è accaduto in via D’Amelio, non si potrà capire cosa realmente sia successo durante la trattativa tra Stato e mafia e se, come sembra ormai certo, Borsellino sia stato ucciso in fretta e furia, a prescindere dai ritorni negativi per Cosa Nostra, proprio perché si stava opponendo alla trattativa.
Per capire quindi, d’ora in poi, sarà meglio seguire Gibran e ascoltare le parole che non sono state dette, dando loro un peso maggiore di quelle pronunciate, soprattutto se a fare scena muta saranno i rappresentanti dello Stato.
Uno Stato che, comunque vada a finire, in quella domenica di luglio di ventidue anni fa perse sei dei suoi figli migliori.


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