Abile è abile, su questo non c’è dubbio. E anche i paragoni con Berlusconi, almeno a livello europeo, sono davvero privi di senso. Mai, infatti, a Matteo Renzi passerebbe per la testa di dare del “kapò” a Schulz o dei “turisti della democrazia” agli europarlamentari che contestano le sue posizioni né si permetterebbe mai di umiliare il proprio Paese in un contesto internazionale facendo “cucù” alla Merkel o incappando in gaffe dai risvolti diplomatici pesantissimi.
Non commetterebbe nessuno di questi errori per il semplice motivo che Renzi, a differenza di Berlusconi, non è un politico improvvisato, proveniente da un altro mestiere e incapace di comprendere la differenza tra un’osteria della Brianza e il Parlamento europeo ma un politico di professione, a tutto tondo, dotato di una discreta cultura e, soprattutto, segretario di un partito che, pur avendo mille visibili difetti, non gli perdonerebbe mai simili comportamenti.
Il vero problema di Renzi, dunque, è un altro: è un politico di razza ma non uno statista e oggi, parlando a Strasburgo, ha dimostrato, ancora una volta, questo suo limite nel senso degasperiano del termine.
Ascoltandolo attentamente, infatti, si è avuta la percezione di un uomo a disagio, astuto nel mascherare le sue difficoltà ma privo di quella visione, di quell’orizzonte, di quella solidità politica che sola gli avrebbe consentito di fronteggiare un contesto oggettivamente ostile e pronto a sbranarlo, e con lui l’Italia, mettendone in risalto tutte le pecche, le carenze e la mancanza di quel coraggio riformista di cui avremmo, invece, più che mai bisogno per venire a capo della più grave crisi economica dal dopoguerra.
Non ha letto il discorso che pure si era preparato: non ce la fa, è più forte di lui. Al pari di Berlusconi, in questo sono simili, Renzi per esprimersi al meglio ha bisogno dello show e dell’improvvisazione: un’improvvisazione di alto livello, per carità, in larghi tratti anche pienamente condivisibile e diremmo “rottamatoria” nel passaggio in cui, citando l’importanza della figura di Telemaco, ha di fatto messo in discussione il suo precedente “mantra” dell’uomo solo al comando, venuto dal nulla, privo di radici e legami con il passato e, proprio per questo, in grado di condurre l’Italia e addirittura l’Europa fuori dal baratro dell’incertezza e della paura per il futuro.
No, in un contesto come quello del Parlamento europeo Renzi sapeva di non potersi permettere le sparate con cui aveva deliziato i senatori lo scorso 24 febbraio, nel suo primo discorso da Premier incaricato, attirandosi delle giuste critiche, tra cui le nostre, per la bruttezza dell’eloquio e la mancanza di rispetto per le istituzioni e il loro ruolo.
Pertanto è stato attento: ha ricordato la funzione storica dell’Europa e la necessità di un forte impegno solidale nei confronti dei paesi del Mediterraneo; ha citato giustamente i drammi dell’altra sponda del mare e le tragiche vicende di alcune vittime della nostra indifferenza e della nostra fragilità istituzionale; ha fornito la visione e l’idea di Europa di una generazione che – parole sue – non era ancora maggiorenne ai tempi del Trattato di Maastricht (volendo, ci auguriamo, metterne implicitamente in risalto l’anacronismo e la scarsa funzionalità nel contesto odierno) e ha per questo incassato numerosi applausi dalle file del PSE e un attestato di fiducia dal liberale belga Guy Verhofstadt.
Il problema di Renzi, ripetiamo, è che non è uno statista; o almeno non ancora. Un vero statista, difatti, si sarebbe espresso con le parole garbate ma fermissime di Barbara Spinelli, figlia di uno dei padri dell’Europa, su temi cruciali quali l’austerità, la flessibilità nell’applicazione dei vincoli di bilancio e l’insostenibilità di una costruzione che ha condotto il Mediterraneo a divenire non la porta ma la periferia marginale del Vecchio Continente, devastandone speranze e aspirazioni, distruggendo milioni di vite e di famiglie e condannando intere generazioni a convivere con l’unica certezza di doversi rassegnare ad un avvenire di miseria che non ha niente a che vedere con le prospettive e le speranze dei propri genitori e dei propri nonni.
E magari avrebbe anche detto espressamente che il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership: accordo transatlantico sul commercio e gli investimenti) fra l’Europa e gli Stati Uniti, senza un’adeguata revisione e accordi stipulati alla luce del sole, rischia di distruggere quel poco che resta delle tutele e dei diritti dei lavoratori nonché la residua sovranità degli stati che non verrebbe ceduta, come sarebbe auspicabile, a una grande casa comune europea ma, di fatto, avocata dalle multinazionali che finirebbero col dettare ordini a dei governi-fantoccio che, oltre a non contare più nulla, perderebbero definitivamente quel briciolo di credibilità che ancora è rimasta loro agli occhi dei popoli.
Senza contare che un vero statista si sarebbe riservato una decina di minuti per compiere una seria analisi storica delle ragioni di questa crisi devastante, accantonando le frasi fatte e i luoghi comuni sui frenatori e i disfattisti, la vecchia sinistra, gli ostacoli posti dai sindacati sul cammino delle riforme e altre amenità e denunciando le vere cause del disastro, ossia la preponderanza dei dogmi liberisti, lo strapotere delle banche e della finanza sull’economia reale, la marginalizzazione dell’uomo nei processi di sviluppo, la distruzione dell’ambiente, del paesaggio e delle risorse del territorio, la barbarie di guerre inutili e dannose che costituiscono uno dei motivi principali del folle indebitamento di numerosi paesi e, infine, con buona pace dell’anti-europeista Cameron e dei seguaci del signor Farage che si voltano di spalle durante l’esecuzione dell’“Inno alla gioia”, la scomparsa di concetti imprescindibili, quali il senso di società e di comunità, provocata da una nemica giurata dell’Europa come la signora Thatcher, autrice di una svolta regressiva che la Gran Bretagna paga tuttora e di cui le sterili minacce dell’attuale Primo ministro costituiscono la continuazione sotto forma di farsa.
Perché questo è il vero guaio di Renzi e dell’Italia: oggi il Presidente del Consiglio aveva ragione ma ha perso pur avendo tutti gli strumenti per provare a combattere la sua sfida. Ha perso perché non è riuscito a far capire al liberista tedesco Manfred Weber, neo-capogruppo del PPE, che sono proprio la grettezza e l’egoismo di personaggi come lui ad aver condotto l’Europa nelle condizioni in cui versa attualmente. Ha perso perché non ha saputo, né forse voluto, rivendicare le ragioni storiche e sociali per cui ha senso, oggi più che mai, essere di sinistra, ossia la lotta contro ogni forma di disuguaglianza ma anche la “rottamazione”, qui sì indispensabile, dei massacri morali, sociali, culturali, politici ed economici arrecati dall’unica ideologia imperante nell’ultimo trentennio: un mercantilismo malvagio che ha portato alla scomparsa di ogni forma di pensiero e di principio e all’adorazione del “Dio denaro” a scapito delle persone e dei loro diritti.
In poche parole, Renzi oggi è stato sconfitto dai mostri contro cui, pure, ha dimostrato di volersi battere; e ha perso perché è troppo debole, troppo isolato, a sua volta privo di quel senso di comunità e di battaglia collettiva che soli gli avrebbero consentito di condannare con la dovuta durezza i tanti Gavrilo Princip contemporanei che stanno uccidendo il sogno dell’Europa e, con esso, l’avvenire dell’umanità.
Peccato, perché oggi almeno ha dato l’impressione di voler dire qualcosa di sinistra, senza però riuscire a capire che la post-ideologia è stata inventata apposta dai cantori del liberismo per ridurre al silenzio e condannare al discredito e all’irrilevanza ogni forma di opposizione al loro disegno di dominio.