Se non gli viene comunicato un legittimo trasferimento (Cassazione Sezione Lavoro n. 13060 del 10 giugno 2014, Pres. Vidiri, Rel. Ghinoy).
Fabio R. ha ottenuto dal Giudice del Lavoro l’accertamento della nullità del termine apposto alla sua assunzione presso Poste Italiane S.p.A. e dell’esistenza, con tale società, di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con conseguente ordine di riammissione in servizio. L’azienda lo ha invitato a prendere servizio presso un ufficio diverso da quello dove aveva in precedenza lavorato. Egli non ha eseguito questa disposizione, chiedendo di essere collocato nell’ufficio cui era in precedenza addetto. L’azienda lo ha sottoposto a procedimento disciplinare e licenziato per assenza ingiustificata. Egli ha chiesto al Tribunale di Pisa l’annullamento del licenziamento sostenendo che l’azienda avrebbe dovuto fargli riprendere servizio nel posto in cui era stato originariamente assegnato.
Il Tribunale ha annullato il licenziamento, ordinando la reintegrazione di Fabio R. nel posto di lavoro. La Corte di Firenze ha rigettato l’appello dell’azienda osservando che l’assegnazione ad una sede diversa configurava un inadempimento contrattuale, concretandosi in un illegittimo trasferimento o, comunque, nell’inosservanza dell’ordine giudiziale di riammissione nel posto originario, sì che il rifiuto della prestazione da parte del lavoratore doveva ritenersi giustificato ed il conseguente recesso della società era illegittimo.
L’azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte fiorentina per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 13060 del 10 giugno 2014, Pres. Vidiri, Rel. Ghinoy) ha rigettato il ricorso. L’ottemperanza del datore di lavoro all’ordine giudiziale di riammissione in servizio a seguito di accertamento della nullità dell’apposizione di un termine al contratto di lavoro – ha affermato la Corte – implica il ripristino della posizione di lavoro del dipendente, il cui reinserimento nell’attività lavorativa deve quindi avvenire nel luogo e nelle mansioni originarie, atteso che il rapporto contrattuale si intende come mai cessato e quindi la continuità dello stesso implica che la prestazione deve persistere nella medesima sede; resta salva la facoltà del datore di lavoro di disporre il trasferimento del lavoratore ad altra unità produttiva, ma in tal caso devono sussistere le ragioni tecniche, organizzative e produttive richieste dall’art. 2103 c.c.. In difetto, la mancata ottemperanza a tale provvedimento da parte del lavoratore trova giustificazione sia quale attuazione di un’eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.), sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti, non potendosi ritenere che sussista una presunzione di legittimità dei provvedimenti aziendali che imponga l’ottemperanza agli stessi fino ad un contrario accertamento in giudizio. Nel caso in esame – ha osservato la Corte – l’invito a riprendere servizio in una sede diversa da quella originaria non contemplava alcuna motivazione, né questa era stata dedotta e dimostrata in giudizio; la modifica della sede di lavoro è stata quindi correttamente intesa come un trasferimento nullo, implicante un inadempimento del contratto di lavoro, sì che nessuna comparazione di contrapposti interessi sarebbe stata consentita al giudice di merito. Sussistevano quindi i presupposti per il rifiuto della prestazione da parte del dipendente, considerato peraltro che il lavoratore aveva esplicitato, nella lettera di risposta alla nota di addebito, le ragioni per le quali non aveva ripreso servizio nella nuova sede.