Parla Claudia Francardi, vedova del carabiniere Antonio Santarelli, colpito alla testa da un diciannovenne e morto dopo oltre un anno di coma. Con Irene Sisi, la madre del ragazzo che l’ha ucciso, ha fondato un’associazione. “No alla vendetta”
PADOVA – Claudia Francardi e Irene Sisi sono due donne unite da una tragedia. Claudia è la vedova del carabiniere Antonio Santarelli, che durante un posto di blocco è stato colpito alla testa da un diciannovenne ed è morto dopo oltre un anno di coma. Irene è la madre del ragazzo che l’ha ucciso, Matteo Gorelli, condannato inizialmente all’ergastolo e in appello a vent’anni. Claudia e Irene hanno deciso di fondare un’associazione perché “portando la nostra testimonianza, raccontando la nostra storia, vorremmo sostenere percorsi di riconciliazione”. Della loro esperienza parleranno nel corso della giornata di studi “La verità e la riconciliazione” organizzata da Ristretti Orizzonti a Padova venerdì 23 maggio (dalle 9.30 alle 16.30 nella casa di reclusione Due Palazzi).
Claudia, come sono nati il rapporto con Irene e la voglia di riconciliazione?
Da due dolori che si sono incontrati. C’è voluto un po’ di tempo. Nel corso dei 13 mesi in cui mio marito è stato in coma io ho partecipato a diverse trasmissioni lanciando messaggi a Matteo e alla sua famiglia. Provavo rabbia, ma volevo incontrare questo ragazzo. Irene mi scrisse una lettera chiedendomi perdono per il gesto del figlio. Si sentiva responsabile per non aver ascoltato i suoi silenzi. Decisi di incontrarla. La prima volta fu insieme ai nostri avvocati, dietro loro consiglio. Fu un po’ imbarazzante, ma in quell’occasione mi sembrò che la cosa migliore da fare fosse abbracciarsi. Le dissi che non la stavo giudicando. Sono convinta che il bene e male possono appartenere a ogni essere umano.
Poi venne a trovare mio marito quando si trovava in clinica di risveglio. Si rese conto subito della gravità delle sue condizioni e che non si sarebbe risvegliato. Ebbe in quell’occasione piena consapevolezza del dramma.
Poi suo marito Antonio morì.
A quel punto decisi di voler incontrare Matteo e anche lui ne sentì il bisogno.
Il giorno della sentenza io mi sentii male dopo l’annuncio di un ergastolo che non mi avrebbe restituito Antonio. Matteo mi sorrise. In un secondo momento mi spiegò che era per tranquillizzarmi e dirmi “va bene così”.
A gennaio 2013 il primo incontro…
È iniziato così il percorso di riconciliazione. Non parlo volutamente di perdono, perché quello lo dà Dio e io non mi sento superiore a Matteo. È un cammino che si fa insieme, lungo una strada che forse durerà tutta la vita e non sa dove porterà. Matteo attraverso il mio dolore e i miei racconti sta conoscendo Antonio e se potrà avere un futuro migliore lo dovrà anche a mio marito.
Da dove l’idea di un’associazione?
Un giorno tornando da Milano con Irene abbiamo detto “perché non facciamo qualcosa insieme”? Matteo ora è agli arresti domiciliari e non può partecipare attivamente, ma io e lei possiamo fare qualcosa di pratico. Da qui l’idea dell’associazione, che vuole diffondere la cultura della riconciliazione, appunto.
Vista la sua esperienza cosa prova quando sente altri parlare con toni vendicativi?
Arrabbiarsi non serve a niente, non fa bene a me e la vendetta non serve a nessuno. Non nego di avere avuto fasi di rabbia, ma non mi piacevo. Non si sta bene e la persona scomparsa non torna. L’unica cosa è far nascere dal male il bene. Non è difficile, dovrebbe essere nel nostro Dna.
Vorrei parlare con chi chiede pena punitive per farli riflettere. Conosco la frustrazione delle vittime, lo stare in aula, dover ascoltare avvocati e pm e non poter parlare del nostro dolore. Invece quando facciamo la mediazione io parlo con Matteo del mio dolore. A queste persone vorrei dire: almeno provateci. (gig)