‘Fusse che fusse la vorta bona’ ? Per ringraziarlo, ricordarlo, evitarne il dimenticatoio, anzi iniziare a studiare la sua arte\spontanea di uomo ed artista: che molto si stimava, ma senza supponenza e cattedratiche lezioni, che egli stesso bramava frequentare da ‘alunno’ sino alla fine dei suoi giorni, vicino ad autori, registi, attori debuttanti
L’umanità, la grande arte, il mestiere di vivere di Nino Manfredi stavano (e persistono) in una sola espressione, anzi in un baluginare di espressioni che, per effetto ottico e abilità dell’interprete, sfondava in un solo attimo lo schermo. Si pensi a una sequenza- chiave del suo migliore repertorio: preferibilmente da “Il padre di famiglia”, “Spaghetti House”, “La mazzetta”.
Nino, da uomo “qualunque” non qualunquista , mai egocentrico o bastante a se stesso, subisce un’ingiustizia, una ferita dell’anima. Per una frazione di secondo ne intuisci la voglia di reagire con rabbia, con un pugno sferrato a vuoto, con un’invettiva viscerale. Invece inghiotte tutto, fa un piccolo ghigno e torna a sorridere, amaro e tramortito. Emblema delle viltà italiane? No. Piuttosto un’inedita variazione del Ciampa pirandelliano che intuisce- per pratica e consuetudine con l’ingiustizia passiva-l’effimero e la vanità di ogni reazione plateale.
Quell’espressione era (è) solo sua , irripetibile, mai intravista in nessun altro attore, né prima né dopo. Che se n’è andò in una mattinata di giugno del 2004, in una Roma congestionata per l’arrivo d’un presidente americano guerrafondaio e goffo, cui ci piace immaginare che Manfredi rivolgesse il suo ultimo la sua endiadi di sguardo, fra tolleranza e scetticismo, ironia e malinconia mai sanate da riscatto esistenziale. E nel suo inconfondibile eloquio di frasi smorzate, retrattili, trascinate a fatica o soffocate in gola proprio quando vorrebbero urlare contro la fatica di vivere (una vita degna). Che uomo straordinario, e nello stesso tempo comunissimo, privo di eccentricità, di supponenza, di carismi pataccati.
Del resto era egli stesso, da squisito amico del dubbio e acerrimo nemico dell’arroganza, a non credere “definitivamente” in nulla: il successo, le divinità, la riconoscenza, il danaro. Si rifugiava in famiglia, è vero, da patriarca stanco e affettuoso, ma non lesinava di “darsi” alle platee, agli ammiratori, agli amici ogni qual volta avvertiva che “ne valeva la pena”. Dal grande festival estivo alle piccole rimpatriate al cineforum del Castelli Romani, senza nulla disdegnare.
E’ vero, banalmente vero: con Nino si compose e poi scomparve lo storico poker dei “grandi colonnelli” della commedia italiana- come ironizzava Dino Risi, il regista che tutti li diresse- di cui facevano parte, oltre a Manfredi, Vittorio Gassman, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi. Con alcune partecipazioni straordinarie, va aggiunto, del caro Marcello Mastroianni, troppo assillato ed assimilato dalla celebrità internazional-felliniana. Di quel quartetto, ciascuno era complementare e irripetibile : Gassman era il timido-egocentrico, Tognazzi il caustico-sornione, Sordi il romano- cialtrone che sopravvive a tutto e a tutti.
Manfredi, diversamente, non aveva alcuna “maschera” a cui aggrapparsi, era l’uomo qualunque che diventa comico suo malgrado, come nelle teorie di Bergson: reso tale da un accidente, dalla malasorte, da quel naturale disagio di vita che era l’essenza drammatica della sua arte. Formatasi, com’è giusto che si ricordi, all’Accademia d’arte Drammatica, al Piccolo di Strheler, alla scuola di Visconti, a quella rigorosamente autointrospettiva e naturalista di Orazio Costa. Diversamente da tutti, Nino Manfredi non sembrava “recitare”, bensì essere colto (dall’obbiettivo del cinema) in un momento indistinto della quotidiana fatica d’esistere.
Da questa ferrea autodeterminazione e disciplina nacquero interpretazioni memorabili che è pressocchè impossibile elencare: da “L’impiegato” di Gianni Puccini a “Il Giocattolo” di Giuliano Montaldo, da “Pane e cioccolata” di Franco Brusati a “Cafè Express” di Nanni Loy.
Ma l’eclettismo dell’anima e la vivacità dello sguardo lo condussero anche dalle parti dell’”abbrutimento” borgataro (“Brutti sporchi e cattivi” di Ettore Scola), della pavidità rassegnata ma riscattata da notturne pasquinate (“Nell’anno del Signore” di Luigi Magni), del quasi-infingardo che avverte la colpevolezza della non-scelta (“Secondo Ponzio Pilato” ancora di Magni), dell’impegno politico che non riscatta il ruolo del buono, perdente e “fregnone (se lo diceva da solo in “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola).
Manfredi fu anche regista di due film squisiti e da rileggere con cura: “Per grazia ricevuta”, il più noto (una riflessione traslata sulla sua adolescenza, intaccata dalla malattia) e “L’avventura di un soldato”, episodio del tutto dimenticato de L’amore difficile, strabiliante esercizio di mimica (non una sola parola) ispirata a Buster Keaton e ad un personaggio di Italo Calvino. Ciononostante, Mandredi si congedò da tutti con un dolore inconfessato e alquanto accusatorio per il cinema italiano (e non solo). La sua ultima interpretazione “La luce prodigiosa” (storia di un poeta-barbone che potrebbe essere un sopravvissuto Garcia Lorca) non ha mai trovato distributori. Ed è stato proiettato in televisione, un paio di volte, a notte fonda- giusto a far da tappabuchi. Che tristezza!
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Nota biografica
Nato a Castro dei Volsci (in provincia di Frosinone) il 22 marzo nel 1921, morto a Roma il 4 giugno 2004, Nino Manfredi debuttò in teatro nel 1947 al Piccolo di Roma, passando in seguito alla compagnia Maltagliati-Gassman, quindi al Piccolo di Milano e di nuovo al Piccolo di Roma, dove fu diretto da Orazio Costa. Nel 1951 iniziò l’attività di doppiatore durata quasi un decennio; nello stesso periodo guadagnò una vasta popolarità alla radio partecipando a rubriche di grande ascolto. Nel 1953 tornò in palcoscenico come attore di rivista nella compagnia di Wanda Osiris. Nel teatro leggero Manfredi ottenne grande successo: il pubblico mostrò ben presto di gradire la sua comunicativa, la sua caratterizzazione comica, la sua inedita vena ironica, il modo nuovo di stare in scena e di dividere lo sketch con dei coevi compagni di lavoro. Dopo aver preso parte nel 1956 allo sceneggiato televisivo “L’alfiere”, nel 1958 passò alla commedia musicale a fianco di Delia Scala e Paolo Panelli con i quali, conclusa una onorevole gavetta nella tv delle origini, ottenne grande successo nella conduzione della trasmissione televisiva “Canzonissima” (edizione 1959 60) interpretando l’indimenticabile barista di Ceccano dalla tipica battuta” Fusse che fusse la vorta bbona”. Da allora, per tutti gli anni ’60 e ’70, interpretò alcune delle migliori commedie italiane, come “Anni ruggenti” (1962), “Io, io, io… e gli altri” (1965), “Straziami, ma di baci saziami” (1968), “Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?” (1968), “Nell’anno del Signore” (1969), “Pane e cioccolata” (1974), “C’eravamo tanto amati” (1974) e “In nome del papa re” (1977), vincitore del Nastro d’argento.
In teatro Manfredi ha riscosso un grandissimo successo come protagonista della commedia musicale “Rugantino” (1963) di Garinei e Giovannini. In seguito apparve spesso in televisione come ospite d’onore di varietà e talk-show e per 17 anni consecutivi è apparso negli spazi pubblicitari come testimonial di una nota marca di caffè. Nel 1972 ha interpretato in tv, con arguzia ed efficacia, il ruolo di Geppetto ne “Le avventure di Pinocchio”, diretto Luigi Comencini, e nel 1993 à stato protagonista della serie “Un commissario a Roma”. Sempre sul piccolo schermo, ha ottenuto un grandissimo successo nella miniserie “Linda e il brigadiere”, in onda dal 1997 al 1999, nella quale interpretava il brigadiere in pensione Nino Fogliani.
P.S. ‘La famiglia di Nino Manfredi, figli e nipoti in particolare, si sta attivando per dare il via, dal prossimo autunno, ad una rassegna itinerante-internazionale dal titolo “Nino!”- comprendente proiezione e dibattiti sulle sue più significative prove d’attore e regista’