La guerra di religione è esplosa quando i Séléka, ribelli musulmani, a marzo dello scorso anno, hanno rovesciato il governo di François Bozizé e insediato Michel Djotodia, primo presidente musulmano a guidare il Paese, a maggioranza cristiana.
E’ un piccolo paese dell’Africa centro-occidentale, la Repubblica Centrafricana. Nell’ex colonia francese da oltre un anno imperversa una guerra tra milizie islamiche e milizie cristiane. Si contano migliaia di persone mutilate a colpi di machete, ad opera di uomini che usano violenza per sopravvivere. Sconvolte le vite di civili che ancora oggi portano sui loro corpi segni di violenza e di barbarie.
La guerra di religione è esplosa quando i Séléka, ribelli musulmani, a marzo dello scorso anno, hanno rovesciato il governo di François Bozizé e insediato Michel Djotodia, primo presidente musulmano a guidare il Paese, a maggioranza cristiana.
Le milizie di Djotodia hanno via via incrementato le proprie fila con la presenza di soldati jihadisti di Ciad e Sudan. I combattenti islamici dopo aver assunto il controllo del territorio centrafricano hanno irrobustito vigorosamente i numeri di violenze e saccheggi indiscriminati. Loro bersagli principali: civili di religione cristiana e strutture come chiese e ospedali. Hanno dato alle fiamme centinaia di villaggi, torturando, stuprando le donne e uccidendo gli uomini della popolazione a maggioranza cristiana.
Si schierano così contro i Séléka le truppe anti-balaka, a maggioranza cristiana. Si tratta di gruppi esistenti, a livello locale, dal 2009, organizzati per difendere i civili da aggressioni e soprusi. Il risultato di tanta brutalità è una spirale infinita di rappresaglie, mutilazioni, genocidi e pulizie etniche.
All’inizio dell’anno il parlamento della Repubblica Centrafricana ha nominato presidente ad interim Catherine Samba-Panza.
Lo scorso dicembre l’ONU ha dato mandato alla Francia per un intervento militare, destinato a ristabilire l’ordine nel Paese. 1600 soldati francesi, a sostegno della Mission internationale de soutien à la Centrafrique sous conduite africaine (MISCA), formata da 3.600 soldati, indirizzata a salire a 6000. L’ultima missione di stabilizzazione, denominata MINUSCA, autorizza il dispiegamento di 10.000 soldati e 1.800 agenti di polizia, a partire dal prossimo settembre, che subentreranno alle unità militari del MISCA. Obiettivi: la protezione dei civili e l’allestimento di corridoi umanitari, in modo sicuro e senza ostacoli.
La Repubblica Centrafricana fin dalla sua indipendenza nel 1960 ha vissuto fasi politiche tormentate, tra regimi totalitari e colpi di stato. Le prime elezioni politiche in cui Ange-Félix Patassé diviene presidente sono datate 1993. Da allora instabilità, fino al colpo di stato, 10 anni dopo, in cui il generale François Bozizé prende il controllo del governo. Bozizé rimane il capo indiscusso del Paese fino alla comparsa dei soldati mercenari Séléka.
Oggi le milizie cristiane hanno il controllo di tutte le principali strade del Paese. A rischio la minoranza musulmana della popolazione centrafricana, per l’ondata inarrestabile di omicidi, maltrattamenti e abusi, che sta costringendo intere comunità a lasciare il paese.
Centinaia e centinaia i morti. Solo nell’ultima settimana 600. Sono circa 750 mila gli sfollati interni, 250 mila rifugiati nei paesi confinanti, su una popolazione che non supera i quattro milioni.
Non si arresta l’arrivo nella Repubblica Democratica del Congo (nelle località di Zongo, Libenge e Gbadolite), nel Camerun (a nord nelle località di Mbaimboum e Touboro e nella regione orientale di Lolo) e nel Ciad (nei pressi della località di Bozoum) dei centrafricani in fuga dal quartiere fantasma PK12 (Point Kilométrique 12).
La Repubblica Centrafricana è scivolata prima nel caos, poi nella pulizia etnica dei musulmani. Il genocidio è stato solo schivato, obbligando i civili di fede islamica a fuggire in massa, per mettersi in salvo oltre i confini del Paese.
A Bangui piove senza tregua per giorni. La sera c’è un serrato coprifuoco. Le amministrazioni non funzionano più, banche e stazioni di rifornimento aprono solo un paio d’ore di mattina presto, le scuole sono chiuse. Nelle panchine seminate sulle strade e vicino le università non siedono più studenti che aspettano gli autobus ma giovani soldati che imbracciano kalashnikov.
Da perlapace.it