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Possono essere vietate le notizie conosciute? Commento

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La condanna di otto giornalisti calabresi, per la violazione del divieto di pubblicare atti del procedimento coperti dal segreto investigativo, merita alcune riflessioni

Il codice di procedura penale prevede (art. 329 CPP) che siano coperte dal segreto investigativo tutte le attività compiute dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria fino a che le stesse non siano conoscibili dagli indagati. A tale divieto sono possibili deroghe giustificate da esigenze investigative: il pubblico ministero può disporre la non segretezza di alcuni atti e la segretezza di altri atti che, invece, potrebbero essere già conoscibili (si pensi alla classica segretazione di atti di indagine come l’interrogatorio). Tale segreto mira a preservare la genuinità e la segretezza di indagini che se divulgate pregiudicherebbero il buon funzionamento della giustizia. A questo precetto deve aggiungersi quello previsto dell’articolo 114 CPP che prevede il divieto di pubblicazione di atti, sia coperti dal segreto istruttorio sia non più coperti (o non più integralmente) da tale segreto.

Tale norma non mira a tutelare la genuinità dell’indagine ma a preservare il diritto alla riservatezza dell’indagato e la stessa funzione del giudice che (ancora) non conosce gli atti di indagine e potrebbe essere influenzato dalla divulgazione a mezzo stampa degli stessi.

Un atto è coperto dal segreto investigativo fino a che non sia conoscibile dell’indagato: normalmente tale momento coincide con la fine delle indagini preliminari e con il momento in cui la persona indagata può prendere visione del fascicolo a proprio carico.

Ma può accadere, ed è il caso che verosimilmente riguarda i giornalisti calabresi, che misure di natura cautelare siano adottate prima della fine delle indagini preliminari, pertanto gli atti relativi rientrano formalmente nel divieto di cui all’articolo 114 CPP, ma essi non sono più coperti da un segreto investigativo ‘assoluto’ perché sono conosciute dalle parti.

Di solito in questi casi, a fronte di un coordinamento non perfetto fra le due norme, la giurisprudenza dei tribunali di merito evita di ritenere sussistente l’esistenza del reato (contravvenzionale).

Inoltre per gli atti conosciuti dalla parte interessata, per i quali quindi è venuto meno il segreto assoluto, la stessa giurisprudenza si basa sulla lettura dell’intero articolo 114, il quale prevede che passo dopo passo il divieto di pubblicazione vada diminuendo, rendendo possibile, ad esempio pubblicare, il contenuto dell’atto se non il suo testo integrale.

È necessario che il legislatore coordini meglio le due norme (articoli 329 e 114 CPP) al fine di evitare incongruenze tali da produrre interventi sanzionatori come quello a carico degli otto giornalisti calabresi.

Ciò è necessario perché i tribunali di merito potrebbero dare una interpretazione restrittiva del collegamento fra le due norme (329 e 114) e ciò limiterebbe gravemente la facoltà di riferire vicende giudiziarie di pubblico interesse che hanno portato ad adottare misure cautelari prima della conclusione della fase preliminare delle indagini.

Una ulteriore riflessione riguarda il fatto che per i reati di natura contravvenzionale è previsto il decreto penale di condanna, che viene emesso interamente ‘inaudita altera parte’, cioè senza che l’indagato sia avvisato dell’inchiesta e del relativo procedimento che incombe su di lui. Ma è possibile opporsi al decreto penale di condanna chiedendo di essere sottoposti a un vero e proprio procedimento penale con lo svolgimento del dibattimento pubblico.

Trattando questa questione è doveroso fare un breve cenno a un altro recente provvedimento giurisdizionale che fatto scalpore e ha destato preoccupazioni per la libertà di stampa. Riguarda il pignoramento della testata La voce delle Voci, che ha fatto seguito ad una condanna in sede civile per risarcimento del danno.

Per molti anni la giurisprudenza si è interrogata sulla possibilità di giungere al pignoramento di una testata giornalistica e la conclusione è stata affermativa. È possibile proporre appello contro la condanna in primo grado e chiedere la sospensione della pena. Ma non si può trascurare che la ‘pena’ pecuniaria in questi casi appare sproporzionata, considerato che c’è la libertà di stampa, un diritto di rango costituzionale.

Ritengo che in tali circostanze il giudice, quando impone un risarcimento debba tenere conto della reale possibilità economica della parte e adottare sanzioni tali da non inficiare la capacità lavorativa e professionale della stessa, perché le condanne esemplari possono tradursi in inconcepibili limitazioni alla libertà di stampa.

VV

Da ossigenoinformazione

La condanna di otto giornalisti calabresi, per la violazione del divieto di pubblicare atti del procedimento coperti dal segreto investigativo, merita alcune riflessioni

Il codice di procedura penale prevede (art. 329 CPP) che siano coperte dal segreto investigativo tutte le attività compiute dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria fino a che le stesse non siano conoscibili dagli indagati. A tale divieto sono possibili deroghe giustificate da esigenze investigative: il pubblico ministero può disporre la non segretezza di alcuni atti e la segretezza di altri atti che, invece, potrebbero essere già conoscibili (si pensi alla classica segretazione di atti di indagine come l’interrogatorio). Tale segreto mira a preservare la genuinità e la segretezza di indagini che se divulgate pregiudicherebbero il buon funzionamento della giustizia. A questo precetto deve aggiungersi quello previsto dell’articolo 114 CPP che prevede il divieto di pubblicazione di atti, sia coperti dal segreto istruttorio sia non più coperti (o non più integralmente) da tale segreto.

Tale norma non mira a tutelare la genuinità dell’indagine ma a preservare il diritto alla riservatezza dell’indagato e la stessa funzione del giudice che (ancora) non conosce gli atti di indagine e potrebbe essere influenzato dalla divulgazione a mezzo stampa degli stessi.

Un atto è coperto dal segreto investigativo fino a che non sia conoscibile dell’indagato: normalmente tale momento coincide con la fine delle indagini preliminari e con il momento in cui la persona indagata può prendere visione del fascicolo a proprio carico.

Ma può accadere, ed è il caso che verosimilmente riguarda i giornalisti calabresi, che misure di natura cautelare siano adottate prima della fine delle indagini preliminari, pertanto gli atti relativi rientrano formalmente nel divieto di cui all’articolo 114 CPP, ma essi non sono più coperti da un segreto investigativo ‘assoluto’ perché sono conosciute dalle parti.

Di solito in questi casi, a fronte di un coordinamento non perfetto fra le due norme, la giurisprudenza dei tribunali di merito evita di ritenere sussistente l’esistenza del reato (contravvenzionale).

Inoltre per gli atti conosciuti dalla parte interessata, per i quali quindi è venuto meno il segreto assoluto, la stessa giurisprudenza si basa sulla lettura dell’intero articolo 114, il quale prevede che passo dopo passo il divieto di pubblicazione vada diminuendo, rendendo possibile, ad esempio pubblicare, il contenuto dell’atto se non il suo testo integrale.

È necessario che il legislatore coordini meglio le due norme (articoli 329 e 114 CPP) al fine di evitare incongruenze tali da produrre interventi sanzionatori come quello a carico degli otto giornalisti calabresi.

Ciò è necessario perché i tribunali di merito potrebbero dare una interpretazione restrittiva del collegamento fra le due norme (329 e 114) e ciò limiterebbe gravemente la facoltà di riferire vicende giudiziarie di pubblico interesse che hanno portato ad adottare misure cautelari prima della conclusione della fase preliminare delle indagini.

Una ulteriore riflessione riguarda il fatto che per i reati di natura contravvenzionale è previsto il decreto penale di condanna, che viene emesso interamente ‘inaudita altera parte’, cioè senza che l’indagato sia avvisato dell’inchiesta e del relativo procedimento che incombe su di lui. Ma è possibile opporsi al decreto penale di condanna chiedendo di essere sottoposti a un vero e proprio procedimento penale con lo svolgimento del dibattimento pubblico.

Trattando questa questione è doveroso fare un breve cenno a un altro recente provvedimento giurisdizionale che fatto scalpore e ha destato preoccupazioni per la libertà di stampa. Riguarda il pignoramento della testata La voce delle Voci, che ha fatto seguito ad una condanna in sede civile per risarcimento del danno.

Per molti anni la giurisprudenza si è interrogata sulla possibilità di giungere al pignoramento di una testata giornalistica e la conclusione è stata affermativa. È possibile proporre appello contro la condanna in primo grado e chiedere la sospensione della pena. Ma non si può trascurare che la ‘pena’ pecuniaria in questi casi appare sproporzionata, considerato che c’è la libertà di stampa, un diritto di rango costituzionale.

Ritengo che in tali circostanze il giudice, quando impone un risarcimento debba tenere conto della reale possibilità economica della parte e adottare sanzioni tali da non inficiare la capacità lavorativa e professionale della stessa, perché le condanne esemplari possono tradursi in inconcepibili limitazioni alla libertà di stampa.

VV

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