Sono passati più di trent’anni (era il 1983) quando “Time magazine” nominò “machine of the year” il personal computer. Allora erano connessi alla Rete circa diecimila pc, oggi sono tre miliardi. Si parla di un “pianeta parallelo”, con una sua anima (sul web ormai si fa tutto) e addirittura una sua economia (i bit-coin). Non c’è dubbio che il nodo ormai è rappresentato dall’equilibrio fra la libertà di espressione, base della democrazia, e alcune regole che rendano Internet responsabile dei dati, con il rispetto di tutti gli utenti del mondo. In una parola, quel che manca al web è una sorta di Costituzione che fissi i paletti di una realtà globale indiscussa. Ci sta provando il Brasile, sicuramente all’avanguardia nella governance, nel corso del “Net Mundial”, un vertice sul futuro di Internet. E proprio ieri a San Paolo è stato varato il “Marco Civil” che traccia diritti e doveri dei cittadini per l’accesso al web. Per ora riguarda solo i brasiliani, ma certamente può costituire la base per una Costituzione mondiale, come sottolinea Federico Guerrini su “La Stampa”.
Il “Marco Civil” contiene innanzitutto specifiche disposizioni sulla cosiddetta neutralità della Rete, ovvero il principio secondo cui non devono esserci discriminazioni di prezzo a seconda del tipo di contenuti a cui un certo utente vuole accedere. All’art. 9, in particolare, si dice che “il responsabile della trasmissione, commutazione o instradamento è tenuto a riservare a tutti i pacchetti di dati lo stesso trattamento, indipendentemente dal contenuto, origine o destinazione, servizio, terminale o applicazione”. Poi niente ruolo da sceriffi dei provider, che non sono tenuti a vigilare sui contenuti pubblicati, ma sono soltanto tenuti ad “oscurarli” in specifici casi e su ordine di un magistrato. Casomai il provider va contro la legge se non rispetta un’ordinanza giudiziaria. Oltretutto, ed è un aspetto molto importante, niente sequestri a pioggia, ma “l’identificazione chiara e specifica del contenuto individuato come illecito”.
E in questo senso il Brasile si premunisce anche dalle scappatoie: “se a realizzare le attività è una persona giuridica con sede all’estero, deve avere almeno una componente dello stesso ente economico con un’attività in Brasile”. Si vuole così impedire che società come Google o Facebook, per giustificare modalità di trattamento dei dati alquanto elastiche, si possano appellare alla molto più permissiva normativa americana in materia, sostenendo appunto che i dati si trovano su server collocati oltreoceano. “Vogliamo proteggere l’essenza di Internet come spazio democratico e risorsa condivisa per tutta l’umanità – ha detto la presidente Djlma Rouseff – ma vogliamo altresì che rimanga una forte realtà economica, purché continui ad essere sempre più inclusivo”. E’ chiaro che il riferimento è visto come una battaglia contro l’egemonia americana. Gli Stati Uniti, dove è stato concepito il primo embrione di quello che poi divenne il World Wide Web, conservano il controllo di organismi chiave, soprattutto l’ente che assegna nomi di dominio e indirizzi. Per non parlare dello scandalo Datagate che ha dimostrato come agenzie di spionaggio controllano gran parte dei dati online. E proprio la Roussef, come la Merkel, è indicata fra le vittime rivelate da Snowden.
In sostanza, si tratta di una serie di disposizioni molto importanti in linea di principio, ma che potrebbe rivelarsi non molto semplice da far osservare, in assenza di un’autentica giungla, senza strumenti di controllo o sanzione. Certamente intenzioni che non troveranno sponda in tutti i Paesi dominati dai regimi, dove la libertà di espressione mette paura e Internet resta il primo nemico da controllare, se non da abbattere. E la chiusura totale di Putin è solo l’ultimo esempio.