di Giancarlo Ghirra
La tre giorni romana di fine marzo del Consiglio nazionale ha confermato che l’Ordine dei giornalisti è stato condotto dalla sua attuale maggioranza in un vicolo cieco che lo condanna alla mancanza di incisività e all’inefficacia sulle grandi questioni del momento.
Persino la proposta di riforma del Codice deontologico è arrivata in aula all’ultima ora, nove mesi dopo che il Garante aveva aperto la discussione con l’Ordine senza che il Consiglio e le sue commissioni permanenti siano stati mai coinvolti nel dibattito. Eppure si parla di intercettazioni, cronaca giudiziaria, diritto all’oblio, questioni essenziali per chi svolge la professione oggi in Italia e per la stessa democrazia.
Già qualcuno (come l’Unione dei cronisti) grida al bavaglio e alla limitazione del diritto all’informazione in nome della tutela dei potenti e già da tempo fra i colleghi impegnati sul campo serpeggia la preoccupazione.
Ma sotto il busto di Massimo D’Azeglio della sala dove si tengono le sedute del Cnog, soltanto la reazione di un folto gruppo di consiglieri (anche della maggioranza) ha imposto un serio approfondimento prima di pronunciarsi su questioni delicatissime.
Un Ordine sempre più lontano dai giornalisti.
In realtà è tornato ad aleggiare nell’aula angusta e semibuia dell’hotel D’Azeglio a Roma il fantasma di una concezione burocratica dell’Ordine lontana dall’idea che ne ha chi vive sul campo la professione.
Noi consiglieri di “Liberiamo l’informazione” ci battiamo da qualche anno esplicitamente per sventare qualsiasi limitazione al diritto di cronaca non imposta se non da noi stessi e dai nostri codici etici: altrimenti a che serve all’Ordine, organismo appunto di autoregolamentazione?
L’urgenza della riforma per ridare dignità alla categoria.
Non ci interessa un Ordine inteso come struttura di difesa corporativa, e proprio perciò rivendichiamo, finora inascoltati dal Parlamento, una riforma che dia dignità alla professione. Dignità necessaria sia per chi ha superato l’esame di Stato e lavora con le garanzie contrattuali, sia per le migliaia di giovani pubblicisti spesso sfruttati, ridotti a precari, condannati a compensi iniqui.
Ormai il numero dei precari ha superato quello dei garantiti.
Ormai questo esercito utilizzato dagli editori per stracciare contratti e diritti ha superato sul campo quello dei garantiti: i pubblicisti che pagano contributi all’Istituto di previdenza (Inpgi) sono quasi 25 mila contro poco più di 20 mila professionisti. Ecco, noi chiediamo che quanti scrivono pezzi, fanno servizi, portano le notizie in redazione, entrino a fare parte dello stesso, unico, Albo ed elenco dei giornalisti ai quali è affidata la direzione e il governo del desk nei mezzi di informazione.
L’Ordine attuale invece, assieme a loro rappresenta anche decine di migliaia di fantasmi che non svolgono alcuna attività.
“Liberiamo l’informazione” si appella al Parlamento.
Ecco, noi abbiamo chiesto, e continueremo a chiedere al Parlamento, da posizioni di minoranza nel Consiglio nazionale ma non fra i giornalisti che fanno questo mestiere lavorando sul campo, una legge che dopo 51 anni segni una svolta vera, innanzitutto riducendo drasticamente il pletorico “parlamentino” di 156 componenti (ma dodici si dedicano esclusivamente al Consiglio di disciplina sulle questioni della deontologia).
Ridurre di due terzi il Consiglio nazionale.
Ci auguriamo che in giorni di spending review si possa approdare a un organismo snello e funzionale, nel quale siedano non più di cinquanta consiglieri che si occupino prevalentemente di difesa della professione, deontologia e formazione professionale.
Albo unico e laurea obbligatoria per l’accesso alla professione.
L’accesso lo vediamo infatti regolato da laurea ed esame di Stato, come per tutte le professioni, sottratto all’arbitrio di editori troppo spesso miopi.
Su questa proposta ci siamo già confrontati in Consiglio nazionale e fuori da quel recinto. Continueremo a farlo, coscienti che a decidere sarà il Parlamento della Repubblica e non una presidenza che concepisce il suo ruolo in difformità dalla legge: il Consiglio nazionale vi è disegnato come un organismo collegiale, nel quale tutte le voci, e tutti i singoli, hanno una dignità e un ruolo da svolgere.
Le tentazioni “dittatoriali” della presidenza.
Al contrario, circola fra i frequentatori dei saloni del D’Azeglio l’idea che i numeri possano portare a una sorta di dittatura della maggioranza nei confronti della minoranza: nell’ultima tornata dei lavori il presidente pro tempore è arrivato addirittura a indicare in una commissione incaricata di verificare le condizioni di una ripresa unitaria del dialogo sulla riforma anche i nomi degli esponenti dell’opposizione.
Il caso clamoroso dell’esclusione di Pino Rea.
La presidenza è arrivata persino al veto esplicito su un nome, quello di Pino Rea, oggetto di un vero e proprio ostracismo. Noi denunciamo questo atteggiamento, peraltro assai pericoloso perché gli attacchi alle persone, e il tentativo di isolarle, appartengono a culture non democratiche, per non dire di peggio. E speriamo, comunque, in un passo indietro.
E Carlo Bonini si dimette per protesta.
Carlo Bonini, uno dei consiglieri di maggior prestigio professionale, ha già annunciato le sue dimissioni da un gruppo di lavoro nel quale non sieda Pino Rea. La speranza è anche altri colleghi si impegnino per il ritorno al rispetto delle regole. C’è altrimenti il rischio che si porti l’Ordine in un vicolo cieco, in una palude nella quale non si vola alto, ma si rischia di affondare.
“La nostra battaglia continua”.
Noi di “Liberiamo l’informazione”, tuttavia, non ci arrendiamo: siamo pronti a discutere all’interno e all’esterno del Consiglio nazionale, con tutti i colleghi, della maggioranza e delle varie minoranze, con i parlamentari, con i governanti, senza veti e pregiudizi, le nostre idee per una riforma seria e radicale. Chissà che un governo talmente ambizioso da voler riformare lo Stato in poche settimane non trovi qualche ora per occuparsi di noi. Ce n’è bisogno, perché senza riforma quest’Ordine affonda.
Il “caso” Merku-La Zanzara.
Alle riforme vanno inoltre accompagnati comportamenti concreti irreprensibili. Venticinque di noi hanno chiesto di discutere la richiesta di dimissioni dal Consiglio di un collega, Andro Merkù, protagonista insieme all’inviato di Radio 24, Giuseppe Cruciani della trasmissione La Zanzara nella quale l’ex ministro Barca è stato indotto a una serie di rivelazioni utilizzando metodi palesemente contrari al Codice deontologico dei giornalisti in vigore da diciotto anni.
Cruciani è stato segnalato dall’Ordine del Lazio al Consiglio di disciplina, che deciderà sul caso. Appropriarsi di un’identità altrui (in questo caso Vendola) per ottenere informazioni è lecito soltanto per evitare pericoli alla propria incolumità, come accade a chi si occupa di tratta di migranti, ospedali psichiatrici, mafia e camorra. Se ci si pensa bene, poi, giornalisti famosi per le loro inchieste realizzate sotto copertura, quali Gunter Wallraff o Fabrizio Gatti, si sono camuffati sotto finti nomi per realizzare le loro delicate inchieste. Non hanno assunto identità altrui. I giornalisti, quelli veri, ci mettono la faccia.