Importante voto della Camera. In oltre la metà dei casi, in particolare per la nascita di un figlio, non è il risultato di una libera scelta da parte delle donne.
Di Marisa Nicchi
La Camera dei deputati ha votato la legge contro le dimissioni in bianco. Dietro l’unanime riprovazione di questa illegale pratica è andato in scena un palese conflitto con chi, adducendo argomentazioni pretestuose e ideologiche, preferiva lasciare lo status quo che non impedisce alle imprese piccole e grandi senza scrupoli di praticare questa diffusa illegalità.
In questo conflitto la Camera dei Deputati ha scelto di stare dalla parte di chi è senza potere. In prima fila Sel, madre di questa nuova legge, con il Pd, Centro democratico, Forza Italia. Contrari Nuovo Centrodestra e il Movimento Cinque Stelle.
E’ giusto chiamarlo conflitto perché al momento dell’assunzione chi ha bisogno di lavoro a tutti i costi e chi lo può dare non ha lo stesso potere. Per avere lavoro si è disposti a firmare perfino in una lettera senza data il proprio futuro licenziamento. Una lettera che verrà tirata fuori per una malattia, un infortunio, un comportamento sgradito, magari uno sciopero o, caso più diffuso, una gravidanza. Le donne vogliono lavorare e decidere di mettere al mondo i figli, vogliono lavorare e prendersi cura del vivere.
Secondo l’indagine multiscopo Istat su “Uso del tempo”, oltre la metà delle interruzioni dell’attività lavorativa per la nascita di un figlio non è il risultato di una libera scelta da parte delle donne.
Nel 2008-2009, infatti, circa 800 mila madri hanno dichiarato che nel corso della loro vita lavorativa sono state licenziate o sono state messe in condizione di doversi dimettere in occasione o a seguito di una gravidanza. Si tratta dell’8,7 per cento delle madri che lavorano o hanno lavorato in passato, sottolinea il Rapporto annuale Istat 2011 (pp. 153-154). Nello stesso Rapporto si nota che “a fronte di una sostanziale stabilità nelle diverse generazioni della quota di madri che interrompono l’attività lavorativa per la nascita di un figlio, tra le giovani generazioni sono in crescita le interruzioni più o meno velatamente imposte dal datore di lavoro, le cosiddette “dimissioni in bianco” che quasi si sovrappongono al totale delle dimissioni.
Per le donne nate tra il 1944 e il 1953, il fenomeno riguardava meno della metà delle interruzioni per nascita di un figlio. La situazione appare particolarmente critica nel Mezzogiorno, dove pressoché la totalità delle interruzioni legate alla nascita di un figlio può ricondursi alle dimissioni forzate”.
La legge approvata è semplicissima, pragmatica, giusta: stabilisce che per dare le dimissioni volontarie occorre compilare un modulo con un codice alfa numerico progressivo di identificazione con scadenza e dunque non può essere compilato retroattivamente. Indica dove trovare i moduli che non hanno costi e possono essere scaricati dal sito web del Ministero del Lavoro, oppure ritirati presso i Patronati, le Direzioni territoriali del lavoro, Basta un semplice click, a proposito di velocità e semplificazione in luogo di una lunga trafila di raccomandate, perizie calligrafiche, inviti a firmare davanti ad autorità. Al contrario, l’impostazione della legge punta sulla prevenzione delle dimissioni in bianco. Esse, in quanto una delle tante illegalità praticate nei luoghi di lavoro, sono nulle, ma per avere giustizia si deve fare causa al datore di lavoro, fornire al giudice la prova di quanto si asserisce. Un carico pesante tutto sulle spalle del lavoratore e della lavoratrice che scoraggia, ragione per cui si è potuto praticare il ricatto nel silenzio.
Anche la nuova disciplina Fornero con la convalida o la firma in calce, mantiene per chi è vittima tutto l’onere del rifiuto e della contestazione dell’autenticità delle dimissioni o del consenso alla risoluzione. Tant’è che, consapevole dell’ estrema debolezza di questi meccanismi, la Fornero aveva previsto che si potessero individuare “ulteriori modalità semplificate per accertare la veridicità della data e la autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice”. Oggi ritorniamo alla ben più efficace e giusta legge 188/2007. Legge abrogata, ma che aveva fatto breccia nella consapevolezza dell’opinione pubblica, rivendicata da un vasto movimento di donne e su cui si è riformata una maggioranza politica che ci auguriamo porti presto all’approvazione definitiva anche al Senato.
Le dimissioni in bianco sono un dei tanti tipi lavoro in soggezione, senza diritti, a disposizione del volere del datore di lavoro, una forma illecita di lavoro precario che si aggiunge alle molteplici forme di precariato consentite in un mercato sempre più senza lavoro e senza diritti. Sono questi “senza” che rovinano questo nostro paese che il Governo deve affrontare. A questo proposito l’orizzonte politico non presenta buone novità. Il governo Renzi, in continuità con chi lo ha preceduto, sembra individuare nella rigidità dei contratti il male della situazione attuale del mercato del lavoro. Non la precarietà infinita, non la carenza di domanda di lavoro.
Con la prima parte del Jobs act il governo, invece, punta sulla ulteriore flessibilizzazione dei contratti di lavoro con la possibilità di rinnovare i contratti a termine fino a otto volte in tre anni. Si spezza un rapporto di lavoro in contratti di 4-5 mesi, e magari dopo tre anni si ricomincia da capo, con un nuovo lavoratore/lavoratrice. Dubitiamo che questo sovrappiù di precarizzazione dei rapporti di lavoro favorisca la ripresa economica, la qualità delle nostre imprese per essere competitive. Abbiamo già visto i risultati. Per le donne poi, ci potrebbero essere delle conseguenze negative.
E’ bene essere chiari subito, proprio all’indomani di un importante passo positivo per il lavoro con diritti e per il rispetto della libertà femminile. Non ne facciamo due indietro. La possibilità di fare contratti brevi, rinnovabili più volte può permettere ai datori di lavoro di non rinnovarli alla scadenza in caso di gravidanza. Proprio la battaglia contro le dimissioni in bianco ci dice di come sia rocciosa la volontà a considerare i diritti e la maternità un costo.
Lo raccontano le donne interrogate sui loro progetti di fare figli o meno al momento dell’assunzione. Facilitare la possibilità di non rinnovare il contratto a termine per maternità sarebbe un ulteriore attacco all’autonomia e alla libertà di delle donne. Ci troveremmo di fronte una sorta di tela di Penelope: di giorno si fila la trama della difesa dei diritti e di notte la si disfa.
Un prezzo che il primo governo paritario della Repubblica non può far pagare alle donne italiane.
Tutt’altro si deve fare, a partire, finalmente, dal sostegno alla maternità a tutte le donne, in modo universale, a prescindere dalla condizione di lavoro o di non lavoro.