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Agendina digitale

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Il panorama italiano nell’era della transizione al digitale è davvero sconcertante. L’Agenda digitale, per ammissione dello stesso Francesco Caio –cui è stato affidato dal precedente governo il compito di seguirne il decollo- è in ritardo e procede senza un vero coordinamento. Del resto, il rapporto firmato dal medesimo Caio (il secondo, dopo l’omologo del 2009) fa capire che il paese procede all’incirca a mezza velocità rispetto al ruolino di marcia indicato da Bruxelles. E, almeno per ora, il pur velocissimo Matteo Renzi non sembra aver messo – nella sua di agenda- l’Agenda digitale.

I diversi relatori, da Stefano Rodotà, a Guido Scorza, a Nicola D’Angelo, a Giulio De Petra, a Carlo Mochi Sigismondi, a Raffaele Barberio, ad Antonio Nicita, a Franco Bassanini, a chi scrive, hanno passato in rassegna i temi cruciali del sistema sempre più cross-mediale. Anzi. La grande rivoluzione della rete è il tema principe di cui una buona politica democratica dovrebbe occuparsi, per segnare secondo i principi costituzionali il superamento della vecchia trama ottocentesca. E sui diritti dell’età di Internet si è intrattenuto con la consueta lucidità Stefano Rodotà.

Tuttavia, il quadro politico e istituzionale non è incoraggiante. I parlamentari intervenuti –Paolo Gentiloni e Paolo Coppola del Pd, Linda Lanzillotta di Scelta civica, Antonio Palmieri di Forza Italia hanno sottolineato che finora poco si è fatto e ancor meno è stato proposto. In tanti si auguravano che, come fu con il centrosinistra degli anni 1996/2001, si introducesse un coordinamento sulla materia presso la presidenza del consiglio. Ma il governo non è intervenuto, essendo assente il previsto sottosegretario Antonello Giacomelli.

Il tutto ha avuto l’egida di Sel e il coordinamento del brillantissimo Arturo Di Corinto. Ma non sarà – è stato sottolineato da Articolo 21- che il ritardo sia una ben precisa scelta politica, vale a dire la pax televisiva che ha fatto delle frequenze tv il centro di gravità permanente del settore? Un’altra prova del permanente conflitto di interessi. E mentre la vecchia radiodiffusione  non ha regole cogenti, sulla rete incombe il rischuio dell’invasività del regolamento sul copyright varato dall’Agcom. No. Perché, invece, non si affida una parte dello spettro alle associazioni non profit o al mondo dell’istruzione, come prevede –ad esempio- la legge argentina? L’innovazione fa paura ai poteri più o meno forti dell’ingiallito villaggio mediale italiano. Una verifica degli orientamenti sarà il rinnovo della concessione tra lo Stato e la Rai nel 2016.  O la vita o la morte del servizio pubblico, vero bene comune.


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