La casa editrice universitaria udinese Forum ha pubblicato l’ultimo numero della pluripremiata rivista multiverso dedicato al tema della misura. Sotto la guida dei curatori Luigi Guadino e Mauro Pascolini… venticinque autori affrontano la questione da più punti di vista: filosofico, scientifico, storico-sociale, letterario e artistico. “Quale misura per il presente?” è stato anche il titolo dell’incontro di apertura dell’ottava edizione di “Vicino lontano” che si è tenuta a Udine la scorsa settimana. Impossibile dare conto della ricchezza e profondità dei contributi. Dirò quindi solo l’opinione che me ne sono fatta io.
E’ fuori di ogni dubbio che la società contemporanea si trova esattamente nella posizione descritta da Sofocle nell’Edipo: “Chi vive oltre il limite giusto e la misura perde la mente ed è in palese stoltezza”. Ogni obiettiva osservazione scientifica ci dice che le attività antropiche hanno superato la carring capacity del pianeta. La nostra specie, per meglio dire, i gruppi di individui dell’homo sapiens dominanti (più precisamente ancora: quel 20% della popolazione al vertice della piramide sociale che ha il potere di consumare l’80% delle risorse naturali disponibili) si stanno comportando da predatori infestanti mettendo a serio rischio la vita loro e del pianeta stesso.
La domanda allora che gli scienziati di ogni disciplina si dovrebbero porre è: com’è potuto accadere? Non mancano certo gli strumenti e i sistemi di misurazione della realtà e le capacità previsionali. Al contrario, per paradosso, la causa della “dismisura”, dell’hybris, è dovuta ad un eccesso di misurazioni. Come se acquisire conoscenze sul funzionamento dei processi vitali fisici e bio-geo-chimici della Terra costituisca una patente ad una loro utilizzazione illimitata e alla fine distruttiva. Temo che con la rivoluzione scientifica moderna (da Bacone, Galilei e Cartesio, per intenderci) l’umanità abbia preso un colossale abbaglio credendo che conoscere sia sinonimo di prendere e disporre a piacimento, sia caduta nell’illusione di possedere le chiavi dell’universo.
Ha scritto Edgard Morin nel suo ultimo splendido La via: “ad accecarci non è solo la nostra ignoranza, è anche la nostra conoscenza”. Come se riuscire a “scoprire”, misurare, separare, sezionare, classificare, ordinare, quotare, contare, de-marcare… la natura in tanti “pezzetti” ci autorizzasse a farne ciò che ci viene più immediatamente comodo. Si chiama riduzionismo scientifico al servizio dell’utilitarismo economico. Il processo scientifico stesso è stato inserito in una filiera il cui fine ultimo è la massimizzazione dello sfruttamento della natura.
“L’immaginario della modernità – ha scritto Cornelius Castroriadis – è costituito dal dominio razionale assoluto, dal predominio dell’economico come valore esclusivo, unico, dal quantificabile”. E’ la dimensione tecno-economica a prevalere su tutto.
A ben vedere non sono gli scienziati i sé il pericolo per il genere umano e la natura, ma il sistema giuridico-economico-sociale che li tiene in pugno attraverso l’appropriazione, proprietarizzazione, mercificazione dei ritrovati tecnologici della scienza ad esclusivo beneficio della redditività dei capitali investiti nella “ricerca” da trasformare il più rapidamente possibile in “innovazioni” tecnologiche da spendere sul mercato.
Per troppi secoli siamo stati chini a studiare dati analitici della realtà e abbiamo perso di vista la visione d’insieme, organica e olistica del pianeta. Peccato che non sia possibile dare un valore numerico a tutto e che ciò che conta davvero nei cicli vitali siano le inter-retro-azioni spesso casuali, sempre variabili e complesse, tra le parti e con il contesto. Tutto si tiene, tutto è utile alla riproduzione della vita.
Per capire il funzionamento degli organismi complessi, serve soprattutto una capacità cognitiva allargata, servono approcci non solo analitici, ma sistemici, ecologici, estetici e persino empatici, spirituali, metafisici. Per entrare in relazione con la natura bisogna usare tutte le parti del cervello e del corpo e del cuore. Serve quella “sintesi leonardiana” tra “conoscenza e amore”, come ci avverte Fritjof Capra (La scienza universale. Arte e natura nel genio di Leonardo, Bur, 2007) che richiede “una scienza che sappia riconosce, onorare e rispettare l’unità di tutta la vita”. Esattamente il contrario dell’ossessione specialistica e del feudalesimo disciplinare che sono le malattie mortali delle accademie scientifiche. Il tutto non è mai la somma delle singole parti; vi è “un di più” sia nella natura che nel carattere umano che sfugge alla logica del “calcolo scientifico”.
L’essenza della vita non è misurabile; la natura non è solo flora, fauna, mondo organico ed inorganico, ma il principio stesso che ne determina la generazione e il movimento, cioè la sua manifestazione (Edoardo Zarelli). Vi è un “altro ordine” delle cose che è fuori dalla disponibilità umana, che risponde a codici non utilitaristici. Ecosystem services e creatività umana non hanno equivalenti, non sono sostituibili e non sono riproducibili artificialmente. Sono beni e servizi che vanno trattati con cura, preservati, rigenerati continuamente. Sono il fine stesso della cooperazione sociale, non mezzi da sacrificare nei cicli economici della produzione del valore economico.
Insomma non è proprio vero che ciò che non si può misurare non esiste. Vi sono valori fondamentali per la vita che sono incommensurabili: le emozioni, i sentimenti, la bellezza, l’amicizia, la fiducia, l’amore, la felicità. Valori che non si trovano sugli scaffali del supermercato, e di cui pure qualche scienziato si dovrebbe incominciare a preoccupare considerando che le loro “scoperte” non sembrano aumentare né il benessere, né la felicità delle persone.