Le novità sull’assalto costante delle tre sorelle di mafia sul territorio meridionale si succedono con una impressionante rapidità: da un giorno all’altro possiamo leggere che nella penisola salentina la procura di Lecce è costretta a ordinare quarantatre arresti di affiliati alla Sacra Corona Unita, quindi quattro imprenditori incensurati vanno in carcere perchè collaborano con il clan cammorista Moccia e si scopre che un sodale di Provenzano possiede quindici milioni di euro appena sequestrati. Non parliamo di Vibo Valentia nelle dove le notizie sulla cosca Mancuso arrivavano al capo della squadra mobile cittadina e venivano dimenticate. Il dirigente Maurizio Lento e il suo vice Emanuele Rodinò – lo ha scritto Il fatto Quotidiano, senza essere smentito – passavano giornate estive, tra il 2009 e il 2011, nel villaggio estivo controllato dal clan. Il gip del tribunale di Catanzaro ha disposto l’arresto per i due poliziotti perchè la squadra Mobile della città, scrive il giudice,”non ha svolto alcuna attività investigativa su quella che è la la cosca ndranghetista più pericolosa di Vibo Valentia” favorendone così gli interessi. E’ finito in carcere Antonio Galati, da sempre avvocato dei Mancuso, accusato di associazione mafiosa.
Naturalmente non siamo all’ultimo grado del processo e vale sempre la presunzione di innocenza ma non si tratta di singoli episodi in discussione ma di comportamenti che i calabresi, che vivono in quella zona, hanno potuto per anni verificare e vedere anche dall’esterno. D’altra parte il problema nel Mezzogiorno continentale e nell’ isola maggiore è per così dire economico e di sistema più che di analisi degli episodi che quotidianamente rendono la vita in quelle regioni meno sicura e tranquilla che in altre. Dobbiamo sempre di più parlare non soltanto dell’impoverimento politico, culturale e sociale provocato dalle attività costanti delle associazioni mafiose in gran parte della penisola ma anche di quello economico che provoca un danno misurabile in termini persino monetari. Il Censis, benemerita istituzione ormai abbastanza nota, almeno alle istituzioni legislative e ai grandi mezzi di comunicazione, ha calcolato una gigantesca zavorra.
Ogni anno nel Mezzogiorno a causa delle mafie si produce ricchezza in meno pari a sette e cinque miliardi di euro. Un simile tasso di zavorramento comporta la perdita di almeno centottantamila unità di lavoro regolari annue. Secondo il Censis l’opprimente presenza mafiosa si risolve in una catastrofe e il prodotto industriale lordo pro capite diminuisce in modo tale che, se quella presenza non ci fosse, con ogni probabilità il PIL del Sud avrebbe raggiunto quello del Nord. Un’ipotesi verificabile attraverso i calcoli matematici.
Il Censis ha fatto anche un’altra indagine che ha dato risultati significativi tenendo presente che nel 2013 il trenta per cento dei giovani italiani (più del doppio rispetto ai primi anni del ventunesimo secolo) ha trasferito all’estero la propria residenza cercando lavoro. Ebbene il Censis ha chiesto loro quali sono per loro i problemi italiani più difficili da accettare.
Le risposte sono molto eloquenti e mi limito ad elencarle senza commenti: l’assenza di meritocrazia a tutti i livelli, il clientelismo e la bassa qualità dei servizi, l’imbarbarimento culturale della gente, il trattamento riservato ai giovani, lo sperpero di danaro pubblico, la mancanza di senso civico, il provincialismo, l’oppressione della burocrazia, la bassa qualità della vita, il deterioramento delle relazioni umane. C’è un ultimo elemento che vale la pena sottolineare.L’oppressione mafiosa è così pesante da far sì che l’analisi della crisi economica fatta in tutte le regioni mostra che una zona per molti decenni depressa come il Polesine nel Veneto, anche grazie all’immigrazione di tanti meridionali, nell’ultimo decennio ha fatto importanti progressi nel settore della piccola industria, del turismo e dei servizi mentre dalla Sicilia, al contrario è ripresa l’emigrazione dei giovani e progressi economici effettivi di recente non sono stati registrati. C’è da chiedersi perchè – come ha fatto il 24 marzo scorso in un articolo su un quotidiano di Roma un magistrato torinese, che da tanto tempo ormai conosco – sia diventato così chiaro ed evidente il danno enorme che le mafie fanno al Sud, o meglio ancora l’impossibilità del Mezzogiorno di superare l’antico divario se lo Stato e gli italiani insieme non combattono efficacemente, e con successo, l’attacco mafioso.