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20 anni fa la strage di Hebron

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La Città dei Patriarchi ricorda i 29 palestinesi uccisi dal colono Baruch Goldstein venti anni fa. La popolazione chiede che la zona H2, controllata da esercito e coloni israeliani, torni a vivere.

Articolo di: Michele Giorgio – Near Neast News Agency

Fidaa Abu Hamdiyyeh era alla Tomba dei Patriarchi quel 25 febbraio. «Avevo 12 anni, con le mie tre sorelle e mio padre andammo a pregare prima dell’alba», racconta con voce rotta dall’emozione. «Ricordo che nell’aria c’era qualcosa di strano – prosegue Fidaa -, i soldati (israeliani) all’ingresso della moschea avevano assegnato a noi donne uno spazio diverso da quello abituale. Papà ci salutò e andò a pregare con gli uomini». Poi scoppia l’inferno nel luogo dove, secondo la tradizione, riposano i patriarchi e le matriache delle tre fedi monoteistiche. «All’improvviso – aggiunge Fidaa – ci fu un boato, poi le raffiche di un’arma, seguite da urla e dalla fuga degli uomini che scappavano in preda al panico. Tornammo di corsa a casa ignare dell’accaduto, nostro padre rientrò dopo due ore». Fidaa e le sue sorelle appresero dalla madre che un colono, Baruch Goldstein, un medico del vicino insediamento ebraico di Kiryat Arba, era entrato nella moschea e aveva aperto il fuoco sui palestinesi in preghiera, uccidendone 29. Fu poi sopraffatto e linciato dagli altri fedeli inferociti. Oscuri i motivi della strage. A Kiryat Arba Goldstein fu sepolto come un eroe, in una tomba divenuta con il tempo una sorta di mausoleo dove i coloni  più militanti e gli ultranazionalisti ancora oggi vanno a rendergli omaggio.

Hebron ricorda quei morti 20 anni dopo e chiede che sia rimarginata la ferita della sua divisione in due parti, H1 e H2, sfociata nella chiusura di strade e centinaia di negozi arabi nella zona (H2) dove molte migliaia di palestinesi vivono di fatto in balia di rigidissime misure restrittive applicate dall’esercito israeliano a protezione di 600 coloni ebrei insediati a ridosso della Tomba dei Patriarchi. Coloni giunti negli anni passati da diverse parti del mondo, dagli Usa all’Europa orientale, che affermano di avere diritti “biblici” sulla città, prevalenti su quelli di famiglie arabe che da secoli vivono stabilmente a Hebron. Migliaia di palestinesi ieri hanno manifestato affinché la zona H2 non sia più una città fantasma, che la casbah torni a ripopolarsi e, soprattutto, che torni alla vita Shuhada Street, fino al 2000 principale via commerciale della Hebron antica. Guidati da Issa Amro di “Giovani contro gli insediamenti” (Gci), dal deputato Mustafa Barghouti e dai leader dei comitati popolari, sostenuti da dozzine di attivisti internazionali e israeliani, i manifestanti palestinesi hanno raggiunto gli ingressi della zona H2 dove i soldati li hanno respinti con granate assordanti, lacrimogeni e proiettili di gomma. Alcuni manifestanti sono stati arrestati e feriti.

Ci sono due momenti centrali  che permettono di capire le ragioni della tragedia quotidiana di Hebron. Il primo risale all’aprile 1968, quando il rabbino ultrasionista Moshe Levinger assieme a un manipolo di suoi studenti chiese all’esercito – che aveva occupato i Territori palestinesi meno di un anno prima – di poter trascorrere la Pasqua ebraica a Hebron. Non sono mai più andati via e hanno dato luce verde alla colonizzazione della città. Il secondo è la strage compiuta da Baruch Goldstein. Quella carneficina non mise fine alle pretese e alle imposizioni dei coloni, al contrario ha aperto la strada alla divisione “termporanea” di Hebron in H1 e H2 (sotto controllo israeliano), sancita dall’accordo Israele-Olp del gennaio 1997. Le conseguenze di quell’intesa Feryal Abu Haikal, 68enne ex direttrice di un istituto scolastico, le vive sulla sua pelle ogni ora, minuto e secondo della sua vita.

«Viviamo a Tel Rumeida e i coloni di recente hanno iniziato lo scavo archeologico su dei nostri appezzamenti di terra dove, affermano, ci sarebbero delle tombe antiche (di Yishai e di Ruth la Moabita). Su quelle terre però ci sono le quattro case della mia famiglia», racconta Feryal con tono preoccupato. «A inizio gennaio i coloni hanno tagliato una cinquantina di mandorli e altri alberi. Ogni giorno ne capita una nuova, vogliono renderci la vita impossibile e costringerci ad andare via», aggiunge l’anziana direttrice. Gli scavi, in corso accanto alle case palestinesi, sono finanziati con oltre un milione di euro dal ministero israeliano della cultura e sport ed eseguiti dall’Autorità Israeliana per le Antichità e dall’Università di Ariel (una colonia). Il fine è quello di dare vita a un “parco archeologico” simile a quello che i coloni di Gerusalemme hanno creato tra le case palestinesi a Silwan. Secondo l’associazione israeliana “Breaking the Silence” l’archeologia serve a sdoganare le colonie di Hebron, a renderle attraverso il turismo “ufficiali” agli occhi del resto degli israeliani.

«Era già un tormento continuo avere i coloni accanto – spiega Feryal – siamo costretti dal 2002 ad attraversare posti di blocco tutte le volte usciamo o rientriamo in casa. I controlli avvengono proprio davanti alla nostra abitazione», aggiunge Feryal. Se il progetto del “parco archeologico” andrà avanti per gli Abu Haikal si farà ancora più complicato. «Nei giorni scorsi – riferisce Feryal – un gruppo di coloni ha attaccato le nostre case e quelle dei vicini lanciando dei sassi e hanno distrutto i vetri di otto finestre. Mio nipote è stato arrestato solo per essere passato per l’area degli scavi».

«Il problema non è solo la vicinanza dei coloni, i posti di blocco, lo stretto passaggio che ci hanno lasciato per l’ingresso di casa. Siamo oppressi anche dal modo in cui pensano e ci vedono questi estremisti», sottolinea l’anziana palestinese ricordando che tra i suoi scomodi vicini c’è anche Baruch Marzel, l’ex portavoce del gruppo razzista Kach, incluso nell’elenco delle organizzazioni terroristiche di Usa, Ue, Canada e dello stesso Stato di Israele. L’anziana direttrice di scuola in ogni caso non ha alcuna intenzione di arrendersi. «I coloni non riusciranno a mandarci via, abbiamo resistito tanti anni e resisteremo ancora, nelle nostre case».

Da perlapace.it


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