Centotrentamila persone in fuga dalla Siria, sono finite in questa prigione a cielo aperto. Il campo, amministrato con il supporto dell’Onu, è presidiato dai militari giordani e circondato da trincee e torri di guardia.
Articolo di: Massimo Annibale Rossi (Il Manifesto)
Vivono in campi da una cinquantina di famiglie ciascuno, disseminati tra la frontiera siriana e la valle del Giordano. Fuggono da un paese che non esiste più, da un conflitto cristallizzato in una guerra di posizione. Sono di Daraa, As Sawaida, Damasco. Raccontano di rappresaglie, territori infinitamente contesi, puzzo di cadaveri e terra bruciata. La gente di questa parte del mondo ha negli occhi l’amaro destino dei palestinesi del 1948: vagare senza patria o essere rinchiusi a vita in un campo. Hanno lasciato i villaggi quando erano allo stremo. I siriani in Giordania non posseggono il privilegio d’esser profughi e sono censiti dall’Onu — ma non dal governo — come «richiedenti asilo».
Alcuni sono fuggiti dal campo di Zaatari, 130 mila persone: una prigione a cielo aperto, ove tra i prefabbricati, spiccano ancora numerose le tende. Zaatari è amministrato da un dipartimento governativo, con il supporto di Unhcr, agenzia Onu per i rifugiati. I militari ne presidiano l’ingresso e il campo è circondato da trincee e torri di guardia. I fuggiaschi denunciano soprusi, violenze, stupri. Secondo l’Unhcr – Zaatari Governance Plan giugno 2013 – «bande organizzate hanno imposto la loro volontà su quartieri del campo, deviando l’assistenza e realizzando attività criminali».
Le speranze divorate
La guerra è una cesura insanabile. Esiste un prima, che si ha coscienza non tornerà, e un dopo, che passo dopo passo ha divorato le speranze. D’essere accolti, di poter tornare, di aspirare a un’esistenza dignitosa. Chi è riuscito a portarsi dietro qualche soldo ha affittato una stanza, una cantina, un buco. I profughi palestinesi siriani sono aiutati dai profughi palestinesi giordani. Chi non ha soldi, né contatti, né parenti, si arrangia come può. I campi spontanei sono dissimulati nel paesaggio, come un tempo fu per i campi beduini. Non si conosce il loro numero, ma sono in costante aumento. I «richiedenti» mostrano con orgoglio una tessera Un, cui è legata la sopravvivenza, la razione di cibo quotidiana. La maggioranza delle tende esibisce l’azzurro logo Unhcr, ma molte sono cucite alla buona con sacchi di juta. Quanti si sono allontanati dalla provincia ove si sono registrati hanno perso il diritto ai servizi medici e scolastici. I «richiedenti» sono tollerati dal governo, che ne ostacola con determinazione il radicamento. Significativo che nelle scuole primarie, i bimbi siriani frequentino classi separate.
Le ferite sono evidenti sui corpi e nello spirito. Ahmed è padre di quattro bimbi. Sua moglie lo veglia con amore da mesi. Dorme pochissimo e passa le giornate rannicchiato sulla sua stuoia. Ogni tanto ha dei raptus violenti, per poi ritirarsi nel suo abisso di silenzio. Ahmed viveva a Daraa, in un sobborgo passato di mano più volte dai governativi agli insorti. I governativi hanno occupato la sua casa. È stato accusato d’aver collaborato con il nemico e torturato per tre giorni. Casi di trauma da guerra sono frequenti soprattutto tra i bambini. Fanno parte di famiglie le cui case si sono trovate in mezzo ai combattimenti, a volte per settimane. La sindrome più comune è l’agorafobia. Hanno il terrore di uscire allo scoperto, non riescono a socializzare, soffrono di enuresi. Comune è la sensazione che il mondo sia divenuto una minaccia, che il dolore si nasconda in ogni piega dell’esistenza.
In febbraio la valle del Giordano dà i suoi frutti migliori. Ortaggi profumati e giganteschi risalgono la china verso Amman, su camion carichi sino a sfidare la legge di gravità. E le tende dei «richiedenti» spuntano in mezzo ai campi di pomodori. I contadini siriani si offrono per un salario minimo e il diritto di accamparsi nel terreno degli agricoltori. Non hanno documenti validi, non hanno permesso di lavoro, sono disponibili ad accettare qualunque condizione. Alcuni provengono da famiglie beduine, sedentarizzate da più generazioni in Siria, ma che nella nuova condizione appaiono tornate alle origini e se la cavano meglio. Costruiscono forni di argilla, tende resistenti, tessono tappeti, coltivano orti e migrano. Si spostano in funzione del clima e delle opportunità: d’inverno nella valle, d’estate sull’altopiano.
Il problema più acuto dei campi informali riguarda i servizi. I bimbi non vanno a scuola, i malati sono privi di assistenza. Vicino a Der Alla sorge un campo stagionale, i cui ospiti si sono registrati nella provincia settentrionale di Madaba, perdendo con lo spostamento i diritti acquisiti.
Nella tenda centrale è stata organizzata una sorta di scuola: bambini di ogni età sono stipati sulla terra nuda e un adolescente parla loro della storia siriana. Lui, che ha avuto il privilegio di frequentare una scuola vera, sembra a proprio agio nella funzione d’insegnante. Il tutto è reso surreale dalla totale mancanza di materiale didattico: nessuno possiede un quaderno o una matita. Non c’è una lavagna o una scrivania. In un campo poco distante, un uomo di 76 anni giace su di una coperta in pieno sole. Si tratta di un anziano con gravi problemi di circolazione, cui una mano pietosa ha sistemato un catetere. Non c’è modo di trasportarlo. Il vecchio scruta i figli con sguardo altero e si prepara al prossimo viaggio. L’ultimo.
Un fiume in piena
La maggior parte dei «richiedenti» non ha preso posizione nel conflitto. Ha dal principio vissuto la guerra come una calamità, un evento esecrabile che presto avrebbe avuto fine. Descrivono le due parti in lotta come ugualmente frammentate e parimenti spietate. La guerra per le vittime non ha altra logica che la distruttività. Le emigrazioni sono avvenute ad ondate, ma la maggioranza ha resistito finché le case non sono state colpite. Il confine è ora blindato, ma molti sostengono esistano ancora varchi per entrare in Siria. Lo si fa a rischio della vita, per raggiungere parenti, per verificare la situazione nel villaggio, per portare aiuti. Molte famiglie si sono lasciate dietro gli anziani. I primi «richiedenti» sono giunti all’inizio del 2012, trovando una calda accoglienza. Il problema è che in breve un rivolo si è trasformato in torrente, quindi in un fiume in piena. Ora la Giordania, la cui popolazione di 6,3 milioni è per il 60% di origine palestinese, ospita 600 mila rifugiati siriani.
Un secondo grande campo profughi è in costruzione a Azraq, nel Governatorato di Zarca. Una struttura simile a Zaatari e con pari potenzialità. Nella stessa area sono in funzione altri tre piccoli campi, di cui il maggiore – 5mila persone -, realizzato con i fondi degli Emirati arabi uniti. Le Ong giordane denunciano i campi ufficiali quali strutture fondamentalmente detentive, e come tali, lesive dei diritti dei rifugiati. La scelta più condivisa è non operarvi. Il metodo dell’internamento sta dimostrando dei limiti. In primo luogo si susseguono le denunce da parte delle grandi Ong, in particolare Amnesty International, sulle condizioni di vita interne. Azioni indebolite dall’eco sull’opinione pubblica araba del trattamento riservato ai migranti «illegali» nella civilissima Europa e dal sostanziale disinteresse della comunità internazionale. D’altro lato, l’entità del flusso dalla Siria costringe le autorità locali ad una misura di relativa tolleranza verso i campi informali.
Ad Al Mafraq, nei pressi di Zaatari, la terra è dura, arida, piatta. In una discarica edilizia s’intravedono cinque tende. È una famiglia che ha passato da qualche giorno il confine. A distanza di qualche centinaio di metri, altri insediamenti. È il tramonto, il termometro registra 6 gradi. Gli uomini si radunano intorno ad un immaginario fuoco, ansiosi di raccontare la loro storia. Vengono da Daraa, sono fuggiti quando i razzi hanno cominciato a colpire le loro case. Mentre descrivono i bombardamenti, compare un’autobotte. L’acqua che riempie le taniche di plastica strappa l’unico sorriso della giornata. L’acqua è distribuita da un’azienda privata, e deve essere pagata, quindi viene razionata dalla comunità nel modo più rigido. Due bimbe composte siedono su sedie di plastica; non sorridono né giocano. Hanno 5 e 8 anni e soffrono di una grave forma di disabilità. Non indossano cappotto, né scarpe, ma non sembrano patire il freddo. In una tenda vicina due adolescenti stanno abbracciati sopra un materasso, sotto una leggera coperta, per difendersi dal freddo. All’interno nulla, tranne la loro muta, ostinata, richiesta.
Da perlapace.it