Sarebbe scontato dire che ascoltare Sergio Zavoli è stato un privilegio. Ovviamente lo è stato, ma soprattutto è stato un’occasione per riflettere sulla professione, sulle motivazioni che ci spingono a praticarla e sulla natura che deve avere questa professione nel Servizio Pubblico. Insomma è stata l’occasione per metterci in discussione.
L’incontro con Zavoli, in occasione della consegna dei riconoscimenti che gli sono stati assegnati da Articolo21 e dal sindacato dei giornalisti, non è stata, come forse si poteva temere alla vigilia, una celebrazione, una di quelle tristi cerimonie dove gli uomini diventano monumenti viventi. L’incontro con Zavoli è stato invece un entrare dentro la carne e i nervi di quella che è la realtà dell’informazione italiana, i motivi veri per i quali si sceglie la professione di giornalista, scelte che segnano la differenza tra fare questo mestiere nell’unico modo possibile, come ha detto Zavoli, o fare altro, altro che non è giornalismo. Ma soprattutto Zavoli ci ha portato ad interrogarci sul senso che ha la parola Servizio Pubblico. Un interrogativo essenziale, non solo per l’approssimarsi della nuova concessione, ma perché il modo come esso si concretizza, è uno dei passaggi essenziali per la tenuta democratica di questo Paese.
Zavoli ha giustamente sottolineato che il Servizio Pubblico non è un’affermazione astratta, ma esso si materializza nei palinsesti, in quello che si manda in onda. La sfida dunque è sui contenuti e non sulle affermazioni di principio e non è una sfida con la concorrenza privata, è una sfida che riguarda l’essenza stessa di un’azienda come la Rai.
Ricandidarsi per il nuovo contratto di Servizio Pubblico è un’occasione per l’Azienda e lo è proprio partendo dalla lucidissima analisi fatta da Zavoli. Ripensare a cosa la Rai è diventata in questi anni e a cosa invece deve essere, significa progettare una candidatura certo, ma significa prima di tutto riprogettare un’azienda che purtroppo, come ha ricordato Zavoli, è stata sedotta da una visione legata alla mera competizione di mercato che ha portato il palinsesto a divenire in larga misura fotocopia del competitore privato.
L’intrattenimento, che in una visione assolutamente distorta nasconde una serie di prodotti che poco hanno a che vedere con il servizio pubblico, è diventato dominante rispetto ad una missione culturale che è il centro del Servizio Pubblico. Una missione che deve essere sempre e comunque televisione, con le sue regole, le sue specifiche di qualità. Un rinnovamento che prima di passare per la digitalizzazione, per le nuove tecnologie, impone un profondo rinnovamento nei contenuti.
Il grande limite di oggi non è solo un pesante ritardo tecnologico, sul quale il vertice aziendale sta investendo energie e risorse, ma è soprattutto un pesantissimo deficit di idee.
I gruppi autorali appaiono inadeguati e sono spesso imposti da agenzie esterne, di manager che da tempo dettano non solo gli uomini, i format, ma impongono i contenuti. Quello che in questi anni si è visto, Zavoli lo ha fotografato lucidamente spiegando che la Rai è divenuta omologa al competitore privato. Programmi pressoché identici, con costi altissimi e bassa resa anche in termini di ascolti e quindi di inserito pubblicitario, ma con larghi profitti per presunte star e per i loro manager, per non parlare dei contenuti, dei messaggi che rilasciano al pubblico. Forse è giunto il momento per dire chiaramente che dentro i palinsesti vi sono programmi che nulla hanno a che fare con il Servizio Pubblico, che hanno bassa resa di ascolti e che servono solo ad arricchire chi li produce. Programmi che non rappresentano il Paese che invece la Rai ha il dovere di raccontare.
In queste condizioni occorre uno sforzo enorme e un grande coraggio. A questo è chiamata l’azienda Rai se vuole proporsi in modo credibile per il nuovo contratto di Servizio Pubblico. Vincere questa sfida significa anche formare le risorse umane. Un passaggio tra generazioni è necessario, ma anche qui il rinnovamento non è un fatto anagrafico, non basta mettere davanti ad una telecamera i giovani sfornati da una scuola di giornalismo, se a questi, oltre al mestiere, non vengono trasmessi dei valori etici, il senso di cosa vuol dire fare i giornalisti nel Servizio Pubblico. Perché fare questo mestiere e scegliere di farlo in Rai deve voler dire altra cosa dal farlo in qualsiasi altra azienda.
Imporre un modello, ecco cosa deve fare nuovamente la Rai, Un modello di televisione, un modello originale, che guardi alla crescita democratica del Paese, che sia espressione plurale della realtà italiana e che sia in grado di raccontarla. Questa è la missione, questa è la base sulla quale formare la nuova generazione, senza scordare il patrimonio di competenze, di etica che esiste all’interno di questa Azienda e che uomini come Zavoli ogni giorno ci ricordano con una passione e una lucidità che fanno invidia a molti trentenni