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Il caso: i like sui post offensivi di Facebook diventano reato in concorso

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da voltapagina.globalist.it

L’ultimo caso a Parma: un uomo rinviato a giudizio per il mi piace sull’insulto a una donna. Quel che bisogna sapere sui reati di diffamazione e ingiuria.
di Gianfranco Sansalone

Succede di credere, mentre sei in diretta tv, che il microfono sia spento e invece dalla regia te lo lasciano inavvertitamente acceso, e tu parli credendo di non essere sentito da nessuno: fra le vittime più illustri di inconvenienti di questo tipo, per la gioia dei suoi estimatori, c’è Emilio Fede, passato alla storia per i suoi celebri “fuorionda” grazie a Striscia la Notizia.

Ma se sei un giornalista tifoso e conduci una trasmissione sportiva, in una città come Genova dove fra sampdoriani e genoani il tifo comincia col cappuccino al bar, e quando parte la pubblicità dopo un goal della squadra avversaria esclami: «Le rumente (la spazzatutura – ndr) hanno segnato», come minimo sei messo in graticola. E’ quello che è successo nell’ottobre del 2010 a un conduttore di una Tv privata genovese, che in un lampo si è visto dedicare un profilo Facebook intitolato a suo nome e definire “Uno degli uomini più inutili di questo mondo: speriamo che il Signore lo prenda presto con sé, figlio di p..».

Condividere gli insulti è reato.
Giusto il tempo di comparire su Fb, e per il link del profilo prendere decine di “mi piace” da parte di tifosi genoani è un gioco. Giusto il tempo di saperlo, e far partire una querela a carico di tutti per diffamazione e per “minacce reiterate di morte” è un lampo. E non per i commenti contenuti dentro la pagina, ma per i like espressi all’esistenza di una pagina ritenuta essa stessa diffamatoria e minacciosa. Avvocati per tutti, spese legali, tentativi di transazione, anche se poi la causa è finita in nulla.

Fatto sta che non è necessario essere l’autore del profilo per essere potenziale colpevole di un reato, basta esprimere il proprio consenso al suo contenuto.

Il caso di Parma.
Ne sa qualcosa anche quel signore di Parma che nei mesi scorsi aveva letto, presumibilmente con molta partecipazione, la lite furibonda avvenuta, sempre su Fb, tra due donne infuriate, militanti nello stesso movimento, in disaccordo su questioni organizzative. Quando dalla discussione si è passati alle ingiurie, e una di esse ha fatto volare un insulto all’altra e anche a suo figlio, il signore non si è trattenuto e ha marcato il suo convinto “mi piace” sotto il post. Risultato: l’insultata ha denunciato la sua rivale.

Il pm ha aperto un fascicolo e le indagini della polizia hanno portato – alla fine dello scorso mese di gennaio – al rinvio a giudizio, da parte della Procura, per diffamazione aggravata non solo di chi aveva espresso i giudizi offensivi ma anche a chi li aveva condivisi. E ora tutti rischiano una condanna da 3 mesi a 3 anni o a una multa di 516 annui. Codice penale.

Ma questi non sono gli unici casi di persone rimaste schiacciate – per un gesto che la maggior parte delle volte viene compiuto senza neanche pensarci – dal coinvolgimento emotivo in questioni che meritano attenzione nella vita virtuale come in quella reale.

A Castellana Grotte, nell’ottobre del 2012, un automobilista che si era beccato una contravvenzione dai carabinieri è tornato a casa ancora talmente infuriato da riversare la sua rabbia sul socialnetwork, riscuotendo la simpatia e l’approvazione dei suoi amici: denuncia per oltraggio e diffamazione aggravata per tutti.

Cosa dice il Codice penale.
E’ bene ricordare che il reato di diffamazione, nel diritto penale italiano, è il delitto previsto dall’art. 595 del Codice penale secondo cui: «Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1.032 euro.

Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a 2.065 euro. Se è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore ad 516 euro. Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate».

Il reato di ingiuria, invece, è previsto e disciplinato dall’art. 594 del codice penale ai sensi del quale: «Chiunque offende l’onore o il decoro di una persona presente è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a 516 euro. Alla stessa pena soggiace chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa. La pena è della reclusione fino ad un anno o della multa fino ad euro 1.032, se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato. Le pene sono aumentate qualora l’offesa sia commessa in presenza di più persone».


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