Eccola di nuovo: la privatizzazione – ormai una vera e propria ideologia, visto che capitalismo e finanze languono e proclamano crisi durature – torna di attualità. Le Poste italiane, infatti, saranno al 40% messe sul mercato. Il ministro dell’Economia Saccomanni ha parlato di un potenziale introito tra i 4 e i 4,8 miliardi di euro. Sembrerebbe, dunque, ricalcato il modello Enel, vale a dire un ricorso al mercato limitato e sotto controllo. Non come è stato nelle vendite totali «alla Telecom», sulle quali ancora si versano lacrime amare (di coccodrillo, naturalmente).
Dunque, bene così? Attenzione. Stiamo parlando di una delle reti fondamentali della società della conoscenza, una delle più antiche e capillari. E sì, perché le reti non nascono con le telecomunicazioni, bensì proprio con i sistemi di corrispondenza, tanto efficienti da far conoscere in Cina la fine di Napoleone Bonaparte poche ore dopo la morte. Anzi. I network della modernità, persino internet, sono debitori verso la struttura postale, evolutasi con il telegrafo e infine con il web. Lungi dall’essere un mero fardello del passato, il settore è un asset cruciale dell’universo cross-mediale. E non a caso lo Stato-nazione si è formato proprio attraverso i meccanismi relazionali costituiti dalla distribuzione di lettere e materiali cartacei. L’età analogica sta finendo, ma le nuove connessioni hanno oggi un formidabile valore culturale ed economico: un vero bene comune, il tessuto nervoso della società dell’informazione. Del resto, chi ha oggi un labirinto telematico forte di 13.676 uffici (che tristezza la chiusura nei cosiddetti piccoli centri, mentre lì c’è un tesoro…), di 144.628 dipendenti, nonché di quasi sei milioni di conti correnti Bancoposta, oltre agli oltre 41.000 conti ordinari? E nella fetta che fa gola ai privati c’è pure “Poste Vita”, oltre all’attività bancaria.
Ecco qui una bella contraddizione. Se entrassero quote private di fondi pensione o di assicurazioni o di banche, si determinerebbe un evidente conflitto di interessi. Il mercato tira il mercato, gli argini si romperebbero. Infatti, come ha sottolineato lucidamente la Cgil, il governo si è limitato a dire che il 40% potrebbe essere l’inizio di un percorso. Ben venga l’offerta di azioni alle lavoratrici e ai lavoratori, ma non può ridursi a maquillage: allora ci si spinga verso un effettivo azionariato diffuso, se davvero si hanno coraggio e fantasia. Altrimenti, come da qualche parte si vorrebbe, i dipendenti sarebbero coinvolti senza ruolo effettivo, magari sedendo senza potere in un consiglio di amministrazione.
Veniamo, poi, alle crudezze delle routine quotidiane. Le magnifiche sorti e progressive delle Poste da tempo segnano il passo. L’esperienza delle persone in carne e ossa non mente: il recapito della corrispondenza, vale a dire il servizio universale che permette alla società privilegi da monopolista, sta scemando. Tra l’altro, e anche questo non è un caso, il contratto di servizio con lo stato è ridotto ai minimi termini. E il contratto di programma remunera il gruppo. Non mancano i rilievi europei. Con il silenzio dell’Autorità per le comunicazioni, che dovrebbe svolgere le funzioni di garanzia sul servizio postale, stavano persino aumentando i prezzi dei francobolli. Meglio meno, ma peggio, per parafrasare all’incontrario il padre della rivoluzione di ottobre (è storia, nessuno si preoccupi). Eppure, solo qualche anno fa sembrava che si profilasse finalmente un’azienda efficiente e contemporanea. Insomma, l’annunciata privatizzazione non è una banale pratica burocratica, una slot machine per fare cassa. Si mette in questione un patrimonio pubblico senza una vera strategia. Se finisse in un altro spezzatino, con alcune migliaia di esuberi? È preferibile contare fino a dieci, prima di dare un altro colpo alla sfera pubblica.
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