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Mafia e white list, una riprova

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La notizia si può dare subito: soltanto 38 prefetture italiane su 105 hanno gli elenchi delle imprese più idonee per gli appalti pubblici. A un anno dall’approvazione della legge, solo quelle 38 la applicano. Ebbene, se si leggo i principali  quotidiani (io lo faccio perchè di fatto scrivo ogni giorno qualcosa) la notizia c’è soltanto su l’Unità di Landò e su Art.21, su cui  scrivo  più che altrove.

Ebbene è proprio il sindacato Fillea della Cgil (l’associazione cui sono stato iscritto per molti anni), con un recentissimo monitoraggio che ci dà i dati e le cifre che ci servono – senza registrare  differenze rilevanti dal Sud al Nord – a fornirci gli elementi utili per analizzare il panorama nazionale di una situazione che sarebbe troppo poco definire terribile e scoraggiante. In una provincia nota tra gli studiosi e i giornalisti specializzati per essere la più attraente tra le imprese mafiose, cioè della ‘ndrangheta, associazione mafiosa – secondo i dati diffusi in tutto il mondo – che ha superato le consorelle ed è balzata al comando della classifica planetaria, a Reggio Calabria il sito in cui dovrebbe essere presente la White list (cioè quella formata dalle imprese, che possono dichiarare di non aver subito infiltrazioni mafiose) lo spazio è vuoto e non indica nessuna ditta. E in Sicilia, dove c’è stata  per molti decenni l’associazione più pericolosa e  potente – pur con le rughe dovute negli ultimi decenni dalla impetuosa ascesa della mafia calabrese – troviamo soltanto nella provincia di Enna una lista consultabile dall’imprenditore che ha bisogno di farlo. E, nel Lazio e in Liguria, due regioni in cui la presenza della criminalità mafiosa è in ascesa, il panorama ricavabile dai siti è altrettanto desolante. In Piemonte a Torino dove il processo Minotauro ha messo in luce negli ultimi mesi la presenza prepotente della ‘ndrangheta calabrese, una sola ditta finora ha sentito il bisogno di iscriversi.

Potremo continuare ricordando, come ha già fatto l’Unità, che se le White list funzionassero, la lunghezza degli adempimenti antimafia si ridurrebbe notevolmente, non ci sarebbe il problema di attendere le autorizzazioni di legge e non ci sarebbe il rischio del sopraggiungere, fatte le verifiche, di una “interdittiva”  che obbliga a rescindere il contratto con la ditta in odore di mafia, a trovarne un’altra e a ricominciare tutto l’iter.  Altri benefici potrebbero venire dall’Abi (l’Associazione degli Istituti di Credito) che si è dichiarata in linea di principio favorevole al rating di legalità anche se di questi tempi è difficile fruire del credito bancario. Ma la verità è che, come emerge anche dalle sconsolate dichiarazioni del prefetto Frattasi che, presso il Ministero degli Interni, dirige il comitato di alta sorveglianza sulle Grandi Opere e le affermazioni di Salvatore Lo Balbo della Segreteria nazionale della Fillea CGIL secondo i quali alla “entrata in vigore della legge non hanno corrisposto finora azioni positive, politiche attive per implementare le nuove norme.”

Ma questo costituisce un indizio allarmante per il governo Letta che ha più volte promesso di rafforzare la lotta contro le associazioni mafiose e che si trova ora di fronte a un fallimento chiaro e inequivocabile. Chi da molti anni si occupa del fenomeno mafioso nei diversi ruoli che vanno dalla giustizia penale all’insegnamento non solo universitario sa che si tratta di un indizio negativo forte  che non si può sottovalutare. Nè che si spiega soltanto con la crisi economica degli ultimi anni ma che riguarda una preoccupante difficoltà delle imprese, e non soltanto di esse, a collaborare con le istituzioni e ad esporsi di fronte all’attacco mafioso.

Ora, a questo punto, è il caso di sottolineare che o questo atteggiamento cambia e si crea una collaborazione tra istituzioni, giustizia e imprese o le associazioni mafiose proseguiranno la propria ascesa economica e finanziaria ma – fatalmente – anche politica e culturale. Un pericolo quest’ultimo eccezionale prima di tutto per l’Italia ma non soltanto per essa.


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