Non capita spesso nel nostro paese che le organizzazioni più forti e presenti in un settore si mettano davvero insieme e riescano a lavorare proficuamente per ottenere i dati statistici e conoscitivi necessari per andare avanti e modificare la realtà. Ma, questa volta, il rapporto che ho appena letto sul Sistema educativo nazionale italiano messo insieme dall’Associazione italiana dei maestri cattolici italiani, dal CIDI (Centro di iniziaitva democratica degli insegnanti), dalla Lega Ambiente, con la sua Formazione, e l’Associazione Professionale Proteo- Fare Sapere hanno conseguito – mi pare – un obbiettivo importante per mettersi alle spalle lamenti e proteste e far partire – se parlamento e governo vorranno – un lavoro serio e concreto per cambiare la scuola italiana. E di questo, ne sono convinto, c’era proprio bisogno dopo la cura massiccia di ostacoli e di tagli lineari di cui sono stati protagonisti,
nell’ultimo ventennio, prima i governi populisti berlusconiani,
poi quelli della crisi, a cominciare dal governo Monti che tutti ancora ricordano.
Ma per comprendere a che punto siamo oggi è necessario, da una parte, leggere le 575 pagine di cui è fatto il Rapporto complessivo scritto dal gruppo di lavoro delle quattro Associazioni ma, dall’altra, discutere le brevi considerazioni finali che concludono l’indagine e che mettono l’accento su aspetti decisivi della situazione italiana così come è stata determinata dagli errori degli ultimi anni e dalle contraddizioni che si sono poco a poco accumulate.
Partendo da un dato di fatto che ha sempre condizionato, e ancora condiziona il nostro paese e la sua storia: la permanen-
za del forte divario tra il Nord e il Sud ma anche tra l’una e l’altra regione del paese che emergono con chiarezza da qualsiasi indagine svolta con rigore e attenzione ai dati essenziali. Il primo elemento da sottolineare che è insieme elementare ma, nello stesso tempo, indispensabile è che l’Italia non può definirsi un paese giovane. Dai dati ultimi utilizzabili (che risalgono al 2009), la popolazione di età inferiore ai 25 anni costituisce il 24 per cento, quella tra 25 e 50 anni il 37 per cento e soprattutto quella tra 50 e 75 anni il 29 per cento. Mettendo insieme la seconda e la terza classe di età siamo ad oltre il 60 per cento della popolazione complessiva. E a questo si aggiunge che gli incrementi di residenti registrati dal 2002 al 2010, pari a 3.632.700 unità (pari al 6,4 per cento)
derivano, in misura quasi esclusiva, dal saldo migratorio con l’estero (+3,132.7269) e non da una crescita della popolazione interna.
Inoltre le regioni meridionali, caratterizzate da percentuali più alte nelle prime fasce di età, nel decennio 2002-2011, registra-
no un decremento proprio in questa fascia di popolazione, al contrario delle regioni che hanno percentuali di popolazione tra i 3 e 18 anni inferiori alla media. Ci sono parti preoccupan-
panti registrati dal rapporto: la popolazione interessata alla scuola primaria in Calabria è del 18,3 per cento inferiore a quella della scuola secondaria superiore mentre nella Valle d’Aosta l’incremento è pari all’8,9 per cento e del 7,3 per cento in Emilia-Romagna. In generale, il rapporto registra un forte decremento al Sud, un decremento minore al Centro e un incremento in Toscana e al Nord.
La maggior sofferenza riguarda i nidi nei quali l’Italia è in una condizione di notevole sofferenza in termini assoluti ma anche comparativi se si tiene conto che gli obbiettivi europei prevedono il 33 per cento di copertura per il 2020 e i dati italiani del 2009 parlano dell’11,3 per cento e con l’utilizzazio-
ne dei così detti servizi innovativi da parte del 2,3 per cento dei bambini. Il dato nazionale, naturalmente questo riguarda l’intero universo preso in considerazione, è intorno al 13,6 per cento ma oscilla tra il 2,7 per cento in Campania e il 29,5 per cento in Emilia-Romagna. Analoghe oscillazioni riguardano tutti i dati sulla copertura degli istituti di istruzione secondaria come sui servizi. Basta pensare, per un’istituto abbastanza esteso come il tempo pieno con mensa, che siamo di fronte a una media nazionale del 26,7 per cento a cui corrisponde una gamma di tassi di frequenza che dal 2,5% del Molise al 53,1% del Piemonte. L’altro elemento importante riguarda i risultati del sistema di istruzione. Non c’è dubbio che l’obbiettivo costituzionale dell’articolo 3 e dell’articolo 34 non appaiano ancora centrati e che le distinzioni territoriali dell’Italia preunitaria permangano con tutta la loro forza divisiva. Vediamo da alcuni indicatori importanti quali risultati sono emersi. Ripetenze: nella scuola primaria la regione con più alto tasso di ripetenze c’è la Val d’Aosta, la più bassa è la Basilicata. Nella scuola secondaria di I grado, col primato di ripetenze, troviamo sempre Val d’Aosta, mentre in seconda e terza il primato spetta alla Sardegna. I tassi più bassi si trovano invece in Basilicata, Umbria e Calabria. Nella secondaria di II grado è la Sardegna ad avere il più alto tasso di ripetenze nel quinquennio mentre il tasso più basso si registra in Calabria. Trentino e Molise. Quanto alla dispersione scolastica è la Sicilia la regione con il più alto tasso e il Lazio quella con il più basso. Potremmo continuare perchè la ricchezza dei dati è ancora maggiore dei molti esempi emersi finora e consentirebbe di delineare ancora meglio il dato la gravità del quadro fotograto dal rapporto delle quattro Associazioni e, per fare un altro esempio, dal materiale raccolto negli ultimi tre anni dal Forum sull’istruzione del Partito democratico. Ma vale piuttosto la pena indicare, sia pure in maniera sintetica, alcuni elementi direttivi di una politica che inverta l’attuale crisi del sistema dell’istruzione nel nostro paese. Innanzitutto è necessario puntare a una politica nazionale che si concentri su una migliore formazione degli insegnanti, quindi a un coordinamento a livello regionale e locale che faccia decrescere le grandi differenze che dividano le varie parti della penisola, a cominciare dal divario Nord-Centro-Sud. E, nello stesso tempo, riesca a far partecipare, gli insegnanti come le nuove generazioni, a un progetto complessivo di centralità della formazione come obbiettivo fondamentale di una politica di governo nei prossimi dieci anni come premessa necessaria di una ricostruzione della penisola in grado di lasciarsi alle spalle l’ultimo ventennio e protendersi verso obbiettivi di una nuova acculturazione europea, adeguata alle grandi trasformazioni economiche e tecnologiche in corso.