Un’insegna storta su un palo inclinato. Via Cesare Chiodi. Non la noti quasi mentre percorri la Portuense. Se la imbocchi e prosegui per 200 metri arrivi a un grande cancello grigio. E’ il Cie romano di Ponte Galeria. Intorno praticamente il nulla. La fiera di Roma, cattedrale nel deserto, non è lontana ma appartiene a un altro mondo. Dall’altro lato lo sguardo incrocia i binari del treno, quello che porta a Fiumicino. Anche i turisti diretti all’aeroporto, dai finestrini, lo avranno notato chissà quante volte quel perimetro grigio. Un luogo alienato e alienante. La fermata si chiama appunto fiera di Roma ed è lì che si dirigono, borsone in spalla, i migranti rilasciati dal Cie.
Il 24, vigilia di Natale, ne sono usciti due. Uno di loro, Youssef, palestinese, sabato scorso si è cucito la bocca con ago e filo improvvisati assieme ad altri 10 migranti. Un gesto eclatante per protestare contro la lunga permanenza coatta nel centro di identificazione ed esplusione. Una protesta contro le condizioni igienico-sanitarie in cui sono costretti a vivere. C’è chi non si è cucito le labbra, ma ha comunque smesso di mangiare. Youssef, che incontriamo davanti al cancello del Cie, ha 32 anni. Ci racconta che vive a Roma da 9 anni. Da solo, con i suoi amati cani. Quando esce sono loro la sua preoccupazione principale. A Roma ha anche un fratello, ci dice, lo vuole riabbracciare. E’ finito al Cie, così racconta, perché durante un controllo per strada le forze dell’ordine lo hanno trovato senza documenti. Così si è fatto un mese e mezzo al Cie.
Con le stesse motivazioni ci spiega di essere arrivato qui anche Namdi, nigeriano. “La libertà è la cosa più importante del mondo, per questo lì dentro si protesta”, ci dice rivolgendo un’ultima volta lo sguardo verso le sbarre del Cie. I suoi familiari vivono a Terni, in Umbria. Dopo sette settimane adesso non vede l’ora di raggiungerli.
Quando Youssef e Namdi se ne vanno, il centro di Ponte Galeria sta vivendo i momenti di maggior tensione. In nove restano con le bocche cucite. Non solo. Sciopero della fame – in 40 rifiutano il pranzo – e sciopero del materasso. In quindici la notte della Vigilia scelgono di dormire fuori, per terra, al freddo, riparati solo da una coperta. Le notizie da Lampedusa raggiungono i migranti di Ponte Galeria. Il centro di prima accoglienza si sta svuotando, lo sgombero è quasi ultimato, la speranza che qualcosa possa cambiare anche per il Cie di Roma fa rasserenare, per quanto possibile, l’atmosfera.
Durante la messa di Natale, celebrata nella chiesetta della struttura, arrivano ai migranti la solidarietà e le parole affettuose di don Emanuele Giannone direttore della Caritas diocesana. “Proteste come questa – così don Emanuele – sono la strada per capire l’assurdità di alcune leggi sull’immigrazione”. Dopo la funzione proseguono la protesta con le bocche cucite in cinque. La mattina di Santo Stefano restano in due. Poi, anche loro si convincono.
E così, dopo 5 difficilissimi giorni, la protesta termina: una decisione, spiegano i migranti, presa nella speranza che, dopo i risultati raggiunti a Lampedusa con lo sgombero del centro di prima accoglienza, anche per il Cie di Roma si arrivi presto a una soluzione. Hanno visto l’interessamento della stampa. Hanno sentito la vicinanza e la comprensione di don Emanuele. Ora cercano il sostegno del Pontefice: i migranti decidono di inviare una lettera a Papa Francesco. Proprio ieri, a Natale, il Santo Padre ha invocato “accoglienza per i migranti in cerca di dignità”, ha chiesto che tragedie come Lampedusa non accadano più.
“Siamo venuti per fare una vita migliore, abbiamo trovato solo sbarre”, scrivono i migranti al Pontefice. E ancora: “Santo Padre, siamo noi i nuovi poveri e non siamo carne da macello”. Da Ponte Galeria si appellano al Papa affinché appoggi le loro richieste, tra cui quella di poter uscire al più presto dal Cie.
In effetti, oltre a Namdi e Youssef, a inizio settimana sono usciti altri due migranti che con ago e filo improvvisati si erano cuciti le labbra, ma non per tutti è andata come speravano. Due di loro sono stati espulsi e rimpatriati nel loro paese d’origine. Paese che avevano lasciato, in cerca di una nuova vita oltre il Mediterraneo. Una vita impossibile.