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Inferno Nigeria: rapito un altro italiano

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Accanto a Giovanni Lo Porto, rapito quasi due anni fa in Pakistan, e a padre Paolo Dall’Oglio, prigioniero da ormai sei mesi in Siria, da pochi giorni c’è un altro italiano in una situazione difficile: Marcello Rizzo, 55 anni, un catanese manager di una ditta siciliana di costruzioni che sta portando avanti un progetto sul delta del fiume Niger: un ponte tra  le città  di Onistsha e Asaba. Forse non si tratta di guerriglieri, come è avvenuto in passato per altri ostaggi, anche italiani, ma sembra stavolta di banditi comuni in cerca di un riscatto.

Sono stato molti anni fa in Nigeria e nonostante disavventure molto rischiose vissute successivamente, ricordo il Paese africano come uno dei posti più pericolosi al mondo. Territorio di una bellezza sconvolgente, ma anche ricco, grazie al petrolio: solo che la ricchezza, come succede in quel continente, non riguarda certo il popolo. Violento, corrotto, con grandi coinvolgimenti governativi. Un Paese dove la vita conta pochissimo: ecco perchè, per una delle tante Momoh come le chiamano lì, diventa un sogno anche finire su un marciapiede, purchè europeo. E il mercato della prostituzione, anche italiano, è occupato almeno per la metà da poverissime ragazze di Nairobi. Uno scandalo, anni fa, riguardò inoltre la nostra ambasciata per un traffico di visti, duemila dollari a documento, soldi finiti secondo la procura torinese nelle tasche di qualche nostro funzionario.

In Nigeria ero andato per seguire la vicenda dei rifiuti tossici. In una discarica dalle parti di Benin city, nel porto di Koko, erano stati ammassati centinaia di bidoni provenienti dall’Italia. Scaricati, grazie alle complicità locali, da ditte italiane. Nel filmato quelle ditte erano individuabili e, dopo il servizio al Tg1, l’allora pretore Amendola aprì un’inchiesta che portò alla condanna di quelle ditte. Anche noi, per fare quelle riprese, fummo costretti a pagare. Come fummo costretti a pagare appena entrati nel Paese solo per riavere il passaporto o per ottenere la stanza superprenotata dell’albergo. Poi a Lagos tentammo di seguire un’altra vicenda delicata: il sequestro da più di un mese di ventiquattro marinai italiani, bloccati su una nave mercantile. Forse legato alla storia dei bidoni tossici perchè il governo nigeriano voleva un risarcimento e teneva quei marinai come ricatto. La questione del sequestro era ufficiale e allora decidemmo di non pagare nessuna tangente. Ci mettemmo tranquillamente in fila. Dopo nove giorni estenuanti riuscimmo ad ottenere il permesso del ministro dell’informazione e del governatore della capitale. Pieni di pezzi di carta andammo allora al porto a riprendere la nave. L’operatore, il compianto Franco Stampacchia, fece appena in tempo a tirare su la telecamera che ci arrestarono. Ricordo, nome lugubre, si presentarono come SSS: i servizi di sicurezza del presidente. Con potere su tutto e su tutti. Ci dissero: “Quella per noi è carta straccia”. Ci tennero per un giorno in galera e poi ci tolsero i passaporti in quello che era una specie di arresto domiciliare: chiusi nella stanza d’albergo con due ufficiali fuori la porta. La sera però andavano via convinti che ormai tanto non eravamo pericolosi (con il buio) e invece noi andavamo all’aeroporto a spedire i servizi girati dalla terrazza che stava proprio sopra il porto. Fu arrestata qualche giorno dopo anche una troupe del Tg2 con il collega Stefano Marcelli che ormai da anni si occupa da vicino della libertà di stampa nei luoghi difficili del pianeta. Quell’avventura meriterebbe un lungo racconto come la grande paura di vivere a Lagos dove la vita non vale una “naira”, con gli italiani asserragliati dentro casa e la scoperta del mercato di carne umana. Dopo otto giorni ci mandarono via, per fortuna. Qualche giorno dopo mi arrivò in redazione a Roma una letterina dell’ambasciata nigeriana. Gentilissima. Avvertiva: “Per il vostro bene non tornate mai più a Lagos, è un consiglio”. Non ci sono più tornato.


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