BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Lessico deviante. Una riflessione sul legame tra la deformazione lessicale pro-Israele operata dai media e la graduale dissoluzione dei principi democratici in Italia

0 0

Lessico deviante: un’onda che attraversa il  Mediterraneo, porta con sé le ragioni a termini invertiti e le deposita come un virus che s’insinua nelle cellule comunicative. Un’onda che nel flusso  di ritorno trascina via i pilastri del  pensiero democratico, lasciando solo rovine come ricordo di codici estinti o in via d’ estinzione.

Potrebbe essere la sintesi di un film di fantascienza e invece no. E’ quel che si sta verificando da qualche decennio. Una specie di virus che passa attraverso i media, varca il Mediterraneo e si attacca  alle cellule democratiche. Non si limita  a corroderle, ma se ne impossessa e le trasforma. Esattamente come avviene per il  virus biologico o quello informatico,  al suo arrivo è talmente piccolo e privo  delle strutture necessarie alla sua replicazione che viene accolto senza predisporre difesa. E’ a questo punto che il virus utilizza le strutture biochimiche della cellula in cui è riuscito a penetrare e inizia a riprodursi fino a procurare l’annichilimento  dell’organismo ospite.  In questo caso, e uscendo di metafora, fino a procurare il totale affievolimento della capacità critica, unico antidoto alla distruzione della democrazia sostanziale e dei valori che l’hanno ispirata e nutrita. Quei valori che ne hanno fatto sopravvivere i geni  perfino sotto le dittature del “900, dalle quali il nostro Paese è uscito con una Costituzione che ora siamo chiamati a proteggere.

Ma perché, proprio nel momento in cui più forte è l’attacco alla Costituzione e allo stesso ordinamento giuridico della Repubblica, invece che guardare dritto nel campo in cui si svolge la battaglia per salvare o mutilare la Carta costituzionale, vado a buttare lo sguardo dall’altra parte del Mediterraneo? Immagino che queste prime righe possano indurre una simile domanda e quindi mi spiego.

I motivi sono almeno due. Uno è di carattere generale e cioè ritengo, o meglio la storia c’insegna, che il più delle volte sono stati elementi apparentemente marginali a  preparare il terreno ad avvenimenti storici che successivamente avrebbero preso forma compiuta, e spesso drammatica, e quindi, in ultima analisi, quegli elementi apparentemente marginali sono stati determinanti per produrre eventi che non avrebbero potuto compiersi se non fiaccando   resistenze e   convinzioni capaci di porsi come  barriera. Il secondo motivo muove da un elemento personale, certamente soggettivo come interesse, ma assolutamente oggettivo come dato di fatto, muove cioè da una situazione che conosco abbastanza e che seguo da molti anni, in quanto soggetto attivo nella difesa dei diritti – regolarmente e impunemente violati – del popolo palestinese.

Il conflitto di classe, con buona pace di chi s’ingegna per negarlo, è il binario su cui corre la Storia, ma nel conflitto tra oppressori e oppressi, tra sfruttatori e sfruttati,  è insito, sebbene non sempre immediatamente trasparente, il movimento umano verso la “Libertà”, verso il riconoscimento e il rispetto di quell’insieme di diritti che oggi riconosciamo come Diritto Universale. Sul piano economico crescono e si affermano tanto le  sovrastrutture giustificatorie che tendono a perpetuare il dominio, quanto le forme di “minorità” indotta, di mortificazione, di negazione della parte oppressa, fino a “negarne la negazione” dei diritti, avendo reso impalpabile la loro stessa consistenza di soggetti oppressi, rovesciando i rapporti grazie a una narrazione manipolata. E’ un meccanismo necessario. E’ il meccanismo che rende la sovrastruttura ancillare alla struttura affinché questa venga protetta e mantenga il suo potere.

Ma è proprio quell’anelito verso la Libertà, che a sua volta cammina con passo interno al conflitto, supportato  dalla consapevolezza del meccanismo attuato dal Potere, a rappresentare il nòcciolo duro della Resistenza. Ed è qui che lavora l’alleato primo del Potere: il potere mediatico.

Credo sia un errore pensare che ci sia malafede in ogni organo d’informazione, in ogni commentatore, in ogni inviato che racconta la cronaca prima che questa diventi storia, pur  contribuendo a farla diventare “una certa” storia. Di certo malafede ce n’è, ma non credo in modo così capillare. Ce n’è sicuramente quando si cancellano notizie (succede spesso) o quando si deformano artatamente. Ma il vero problema, quello che rappresenta il reale nemico della verità e il più subdolo alleato del Potere in ogni situazione significativa,  è dato dal calarsi degli operatori mediatici – forse inconsapevolmente, ma certamente violando i principi deontologici del mestiere – in un alveo narrativo predeterminato, arrivando così alla foce prestabilita  portandosi dietro qualche milione di utenti  cui l’azione propria dell’opinion maker è stata esattamente quella di  “costruire per loro una precisa opinione” piuttosto che fornire loro  un’obiettiva informazione.

Si sono scritte milioni di pagine su questo argomento e non è mia intenzione aggiungerne altre, ma quello che ritengo importante prendere in considerazione – e  di questo non mi risulta sia stato scritto ancora niente se non qualche comunicato stampa, regolarmente ignorato dalla stampa (!) – è come quel virus cui ho accennato sopra, partendo dalla quotidiana violazione israeliana del Diritto internazionale, sia arrivato a contagiare l’Italia fin nelle fibre più intime della legalità repubblicana.

Immagino possibili obiezioni del tipo “e Berlusconi?”. Certo, non mi sogno di attribuire solo a un’adesione mediatica filoisraeliana il devastante cammino su cui il concetto e le pratiche di democrazia sono andati a impaludarsi in questi anni. Ma quel sistema reticolare che io credo sia presente nella società e si riversi nella Storia, tiene conto di numerosi elementi e quello che io mi accingo a prendere in considerazione, pur sembrando marginale, ha prodotto modifiche nella percezione del diritto democratico che, a loro volta, stanno producendo modifiche devastanti per la tenuta della democrazia, intesa non nella più banale forma sintetizzabile in un’urna in cui porre una scheda, ma come reale “cultura democratica”, senza la quale la democrazia è parola tanto vuota da non trovare riscontro nell’affermazione di quei diritti che hanno reso possibile il passaggio da suddito a cittadino.

Se si finisce per accettare come normale che diritti sociali o civili o politici non siano patrimonio di ogni persona umana, di fatto si sta cancellando quella cultura democratica che è alla base, ma anche alla vetta, della nostra Costituzione. E ciò vale anche quando la negazione costante di un diritto viene praticata da un altro paese, se questo non viene sanzionato, ma giustificato o addirittura elogiato. Esattamente quello che succede con lo Stato di Israele.

Non è un problema di coscienza, è un problema politico. Non è sufficiente indignarsi per la violazione del diritto naturale che spetta a ogni individuo, questo è un giusto sentire che attiene alla sfera individuale, ma la negazione  del Diritto da parte di uno Stato  non può che essere considerata nel suo aspetto politico e solo questo, mentre ne spiega il peso e il valore, dà la chiave per capirne la portata e le conseguenze.

Parimenti non può considerarsi democratico uno Stato solo perché si dichiara tale, mentre le sue azioni e le sue leggi ne mostrano  l’essenza reale. Non basta avere un Parlamento legiferante per definire una norma legittima. Né il termine legalità può coprire di un manto giuridicamente nobile ogni nefandezza in forma di legge. Se così fosse, le leggi razziali del 1938 avrebbero la loro dignità, mentre invece rappresentano la prova conclamata e ignobile delle aberrazioni del totalitarismo fascista.

Pertanto, se l’Italia abbraccia come Paese amico uno Stato le cui violazioni della legalità internazionale sono la norma; se ne sostiene o ne tollera leggi interne che negano l’eguaglianza di diritto tra individui di diversa etnia o di diversa religione; se collabora economicamente e politicamente con quel Paese, allora ogni cittadino italiano ha motivo di sentirsi meno sicuro nella certezza dei propri diritti, anche se questi sono scritti sulla Carta costituzionale. Proseguendo nel ragionamento con esempi che ne rendano chiara la logica, chiedo a chi mi legge: “che senso ha l’art. 3 della Costituzione che riconosce uguaglianza di ognuno a prescindere da lingua, razza, religione se poi le massime Istituzioni italiane ammirano ed elogiano pubblicamente uno Stato che queste garanzie non solo non le dichiara ma le impedisce, addirittura, anche attraverso le proprie leggi?”

E’ fuori discussione che la democrazia abbia come suo principio fondante la libertà e la partecipazione di ognuno alla vita politica e, infatti, in questo principio trova espressione il primo comma dell’art. 21 C. in forza del quale ci si appella al diritto di “manifestare liberamente il proprio pensiero”. Come può, allora, rapportarsi questo diritto alla pratica di un Paese considerato amico se questo nega a cittadini italiani incensurati persino il diritto di dichiarare l’intenzione di entrare in Palestina, vietando il passaggio (obbligato a causa della sua stessa illegale occupazione militare), a meno che questi non si pieghino alle bugie, cioè non accettino la  limitazione di quel diritto di parola che in patria è “costituzionalmente” riconosciuto a chiunque?

Questa induzione ad accettare come normalità le azioni illegittime commesse quotidianamente dal Paese “amico”, induce all’accettazione “spontanea” e inconsapevole di quei tentativi di distruzione dei principi costituzionali che per anni sono stati perpetrati dalla componente  più lontana dal concetto di Stato come bene comune che l’Italia abbia avuto dal 1947 ad oggi.

Ma il virus lavora. Ha lavorato molto in questi anni, e l’idea di avere una Costituzione come effettiva garanzia di una cultura democratica è diventato un laccio insostenibile anche per chi l’aggettivo democratico ce l’ha nel proprio nome. Così, dopo il primo grande attacco alla struttura democratica per antonomasia rappresentata dal sistema elettorale proporzionale, considerato colpevole dell’instabilità governativa e della corruzione che aleggiava sul sistema partitico di circa venti anni fa, si è andati scivolando verso quello che sembra essere il tentativo di demolizione totale della Costituzione in nome di uno sfrenato e drammaticamente condiviso desiderio di dirigismo autoritario che riduce sempre più gli equilibri democratici e affievolisce sempre più il diritto-dovere dell’uguaglianza di ognuno di fronte alla legge.

Questo affievolimento della percezione di una cultura democratica è un avvitamento continuo che giocando sulla polisemia delle parole non permette più di distinguere il pilastro che regge la casa dagli ornamenti che lo circondano e che, in nome dell’ “innovazione” contro la “conservazione”,   vorrebbero sostituirsi ad esso togliendo il sostegno alla casa comune.  Del resto, se ci si abitua a considerare normale ciò che sarebbe discutibile anche in situazione di emergenza; se si accettano in nome di un’emergenza determinata ad arte, decisioni che scavalcano i principi fondanti di ogni cultura democratica – e non solo della nostra Carta costituzionale – il  traguardo atteso non può che essere questo.

Come non vedere, tanto per fare un esempio,  similitudini tra l’accettazione del muro israeliano che espropria i territori palestinesi in nome della cosiddetta “sicurezza” dei fuorilegge ( termine proprio secondo le dichiarazioni Onu) che hanno rubato quelle terre, e l’innalzamento di un muro virtuale che vieti il rispetto della Costituzione in nome della protezione degli innovatori contro i conservatori? So che può sembrare una forzatura, ma tentiamo insieme una piccola analisi comparata e la forzatura, forse, non sembrerà più tale.

Dunque, essendo gli insediamenti in casa altrui illegittimi e illegali anche rispetto alla legalità internazionale, oltre che rispetto al sentire comune, almeno finché questo non è adeguatamente manipolato, l’unica possibilità di garantire la sicurezza ai fuorilegge (altrimenti detti coloni) sarebbe  quella di ricondurli al rispetto della legge, quindi liberare la Palestina della loro presenza e farli tornare in buona salute in Israele. Questa soluzione non solo non viene presa in considerazione, ma gli insediamenti crescono, nella più totale e altrettanto impunita illegalità, mostrando al mondo che la forza, quando può contare sulla correità (tale è il silenzio in caso di notitia criminis) delle Istituzioni, è capace di ingoiarsi la ragione senza pagarne alcun prezzo. Infine, parlando ancora di sicurezza, non sembra quanto meno buffo che la sicurezza venga richiesta a tutela dell’espropriante invece che dell’espropriato? E qui si esprime tutta l’abilità dei media e la raffinata operazione dell’hasbara israeliana di cui parlerò più avanti.

Passando dalla sicurezza al muro che ne rappresenterebbe uno strumento, ci si trova di fronte allo schema tipico del sillogismo: posta  la premessa la conclusione è logica. Quindi se la premessa non viene messa in discussione, il muro non può che essere la giusta conclusione scaturente dalla situazione data, anche se ruba altro territorio, chiude gli accessi agli abitanti palestinesi sulla loro stessa terra costringendoli (sotto minaccia costante dei soldati occupanti, è ovvio) a percorsi lunghissimi che altrimenti sarebbero stati di pochi passi, impedisce una vita normale e rende ogni giusta manifestazione contro la sua costruzione, una manifestazione … illegale! A questo punto, visto che la manifestazione è illegale i soldati (dimenticando che sono occupanti) hanno il diritto di disperderla, e se i manifestanti lanciano sassi contro di loro, i soldati usano gas in maniera massiccia, pallottole di gomma (che uccidono meno delle altre ma uccidono) e pallottole vere. Se i manifestanti non si disperdono entrano in campo i carri armati e la situazione va avanti, spesso con ragazzi – qualche  volta bambini – uccisi  e, nel caso in cui i media televisivi italiani decidano di darne notizia, la notizia viene regolarmente offerta come “disordini provocati dai manifestanti delle brigate di…”.

Non viene messa in discussione la causa vera, ma come causa della “necessaria” repressione vengono posti “i disordini”. Chi ascolta si abitua, entra nell’idea che qualche estremista esagitato, e magari antisemita, è il responsabile della mancata pace che tutti vorrebbero ma che non riesce ad arrivare!  Il muro, l’occupazione, gli insediamenti, la violazione del Diritto universale scompaiono nella nebbia delle parole scelte dall’opinion maker di turno.  E’ lo stesso meccanismo mentale che si attiva quando,  dietro a una frase troppe volte sentita, come  “la Costituzione è vecchia, è ora di cambiarla”, scompare ogni capacità d’intendere che c’è un punto irrinunciabile, che non si chiama conservatorismo, che non è in antitesi all’innovazione, che non vuole togliere ma preservare una pienezza di diritti che finirebbe persa se la Costituzione perdesse il pilastro che la tiene sollevata dal contingente. Ma non poteva che essere così, dopo anni di martellamenti sul “nuovo che avanza”, condito da contratti di lavoro smantellati, tutele sindacali ingabbiate,  criminalizzazione o ridicolizzazione di ogni tentato percorso verso un modello sociale anticapitalista, disoccupazione che cresce al galoppo ( paradossalmente in parallelo con i modelli del peggior disimpegno consumista) affossamento dei diritti alla solidarietà con facile disprezzo definiti “assistenzialismo”, disfacimento progressivo della scuola pubblica, inversione dei rapporti lavoratore/impresa e sotterranea induzione al mea culpa dei lavoratori verso gli imprenditori “costretti a sottostare a lacci e lacciuoli” che mortificano la loro libertà di fare profitto! e muri, muri sempre più alti e tuttavia impercettibili, per impedire di leggere i piani di un impero che ha bisogno di alleati perlomeno neutrali per portare avanti il suo progetto di governo mondiale.

Scriveva cinquant’anni fa Hannah Arendt che “senza sviluppare le capacità di giudizio politico e di conseguire, mediante l’azione collettiva, un certo grado di influenza politica, si perdono le condizioni per l’esercizio della cittadinanza attiva e dell’autodeterminazione democratica.” Scrive oggi Stefano Rodotà  che “difendere princìpi e diritti conservati nella Costituzione non è conservatorismo ma difesa intransigente e  resistenza necessaria” e aggiunge che la vera “contrapposizione non è quella fittizia e ingannevole tra conservatori e innovatori, ma tra chi vuole una buona riforma costituzionale e chi ne persegue la manipolazione.”

Sappiamo per esperienza storica, e talvolta anche personale, che col pretesto dell’emergenza o del ricorso a procedure eccezionali sono sempre passate pericolose norme, capaci di corrodere quel tessuto costruito su una cultura di diritti e doveri validi erga omnes e basati su solidarietà, giustizia e legalità, aprendo la porta a quelle “involuzioni di civiltà” che in modo più o meno anodino, arrivano, prendono spazio, colonizzano o annichiliscono il pensiero critico di ampi settori sociali con l’aiuto di un lessico capace di deviare la ragione in torto, la verità in non verità, la vittima in persecutore.

E’ mia profonda convinzione che un grande apporto a  questo processo lo abbia fornito la  comunicazione mediatica che ha ridotto il  conflitto israelo-palestinese in termini tali da banalizzare il Diritto universale e la Cultura democratica. Limitare la percezione delle continue violazioni della legalità internazionale attraverso la giustificazione sul piano dello show mediatico dove tutto viene trasformato in problemi di coscienza, questioni di natura etica o religiosa, o di carattere prettamente umanitario, finisce per cancellare dalla coscienza comune il senso politico di “scelte politiche”. Quando la ragione e il torto assumono un aspetto da stadio o da pranzo in famiglia – secondo lo stile dello show televisivo che ha invaso ogni comunicazione mediatica – e l’elemento sensibile diventa lo slancio emotivo togliendo il posto alle ragioni del Diritto, qualunque sia stato il tramite educativo il risultato non cambia e resta  applicabile a ogni aspetto della vita politica.

In entrambi i casi che sto mettendo a confronto sono scese in campo forze  cosiddette democratiche, portando grande confusione nel significato dell’aggettivo, sicuramente abusato, quando con evoluzioni lessicali di grande fantasia, sono riuscite a giustificare l’ingiustificabile.

Parlo esclusivamente di tutto quello che rientra in un quadro che ha la pretesa di definirsi democratico. Fuori di questo quadro le posizioni espresse possono anche avere una loro coerenza ma è fuori del mio campo d’osservazione.

Per essere chiara, non m’interessa esaminare le posizioni di un Feltri che davanti all’aggressione in acque internazionali di una nave con aiuti umanitari, con a bordo addirittura un neonato e alcune persone molto anziane, non solo ha giustificato l’eccidio a freddo di 9 passeggeri, ma ha titolato a caratteri cubitali sul suo quotidiano (che esiste grazie all’art.21 di quella Costituzione che sogna di abolire) “ISRAELE HA FATTO BENE A SPARARE”. Non vale neanche una denuncia per incitamento alla violenza, Feltri è fuori gioco, non mi stupirei di scoprirlo antisemita nonostante sia filo-governo-di-destra-israeliano. Non m’interessano neanche le sue posizioni circa la Costituzione italiana.

Ciò che mi sembra importante, invece,  è provare ad esaminare come il pensiero democratico si raggomitoli in se stesso quando il lessico deviante, al pari di un abile ipnotizzatore, riesce a indirizzare il sentire comune verso strade in cui la luce della ragione sembra spegnersi senza averne coscienza.

Il ruolo della televisione è assolutamente fondamentale, ma lo è proprio per quell’elemento sovrastrutturale rappresentato “un lessico deviante” che spegne ogni resistenza a modificare convinzioni che, apparentemente, ma solo apparentemente, non riguardano i fatti esposti dal giornalista nel suo ruolo di opinion maker.

Voglio prendere ad esempio  una delle espressioni più usate, e che ritengo più significative nel Paese di Cesare Beccaria, nel Paese in cui viene illuminato il Colosseo ogni volta che nel mondo si sospende un’esecuzione capitale, seppur decretata a seguito di un percorso legale, nel Paese in cui nel 2007 è stato finalmente modificato l’art. 27 della Costituzione eliminando ogni ricorso alla pena di morte, considerandola non ammissibile tout court.

In questo Paese, che è il nostro, le stesse voci che in un servizio televisivo magnificano l’ illuminazione del Colosseo per una pena capitale sospesa, dichiarando giustamente che l’iniziativa “vuole difendere la vita e la dignità umana, in quanto beni non sacrificabili”, esattamente le stesse voci, nel servizio precedente o successivo, con serena impassibilità comunicano il nome (ma a volte neanche quello) dell’ultimo o degli ultimi individui “eliminati” con “omicidio mirato” perché sospetti di appartenere, o perché appartenenti a una milizia armata.

Quando l’omicidio mirato è “mirato male” e comporta una strage, detta “effetto collaterale”, il giornalista aggiunge le scuse per i morti addizionali. Se questi vengono definiti “innocenti” la colpa della loro morte si lascia scivolare, con poche frasi azzeccate, sugli stessi assassinati oggetto dell’omicidio mirato, per esempio dicendo che si erano codardamente mescolati alla folla degli innocenti! Se sulle vittime dette effetti collaterali c’è qualche sospetto di connivenza, amicizia o semplice parentela non si aggiunge niente.

Nessuno resta sconvolto dagli omicidi mirati. Tutt’al più dagli “effetti collaterali” se questi comprendono qualche bambino. Allora, c’è da chiedersi se la pietà umana è morta? No, non è questo il problema, la pietà umana si risveglia con poche parole e qualche immagine appropriata quando serve risvegliarla. Il problema è politico.

Cos’ha distratto l’attenzione dall’illegalità e dal biasimo politico del reato commesso, deviandola verso l’interpretazione rassicurante e convincente di un agire difensivo? Semplicemente una parola: “mirato”. In questo participio passato con funzione aggettivale sta il segreto che rende “normale” l’azione criminale  commessa da uno Stato amico, per di più in qualsiasi parte del mondo abbia deciso di commetterla. E con questo aggettivo l’Italia, che ha abolito dalla propria Costituzione un’appendice che rendeva non del tutto limpido il rifiuto della condanna alla pena di morte, si ritrova ad accettare la pena di morte comminata dal paese amico senza neanche l’ombra di un processo. In tal modo si rende farsesca l’affermazione dell’ultimo comma dell’art. 27 C. e tutto lo spirito dell’articolo stesso. Il risultato  è che anche le violazioni all’art. 27 e al 4° comma dell’art.13 C. commesse in Italia – e  di esempi ne abbiamo purtroppo tanti – non  creeranno nel sentire comune la reazione adeguata ad impedire il ripetersi di  tali violazioni, come purtroppo è sotto gli occhi di tutti.

Per ragioni di spazio prenderò ancora in esame solo un paio di esempi a supporto della mia convinzione che un “lessico deviante” usato a servizio di una causa ingiusta, diventa un valido alleato per consumare il tessuto democratico del nostro Paese.

Userò ancora un participio passato, ma stavolta non in forma di aggettivo. Anzi ne userò due: quello che rappresenta l’azione reale e che risponde al verbo “sequestrare” e quello che risponderebbe ad un’azione in qualche modo gentile, direi accudente, ma che non rappresenta l’azione reale, e precisamente il participio passato del verbo “scortare”.

Premetto, per necessità, un fatto  che rende chiara la malafede dei nostri comunicatori. Il fatto in questione riguarda il caso dei due fucilieri (“i due marò”) che in acque, forse, internazionali   hanno sparato a due pescatori indiani, uccidendoli. Tutto l’apparato statuale italiano si è mosso in loro difesa contro “la pretesa” dell’India di giudicarli in quanto presunti assassini dei due cittadini indiani. Il caso, secondo una tradizione ormai consolidata si è trasformato in gossip televisivo in cui gli spettatori si sono trovati a “tifare per i nostri” a prescindere dall’esame dei fatti dal punto di vista giuridico. Un elemento, però, è stato regolarmente messo in evidenza  come fatto oggettivo (benché controverso) circa il diritto o meno dell’India  a fermare e interrogare i due marò: le acque internazionali e, quindi, la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare.

A questo punto è fin troppo facile chiedersi come mai l’Italia, nei numerosi casi di navi, barche e velieri che hanno tentato di portare aiuti a Gaza  e sono state assaltate o bloccate in acque sicuramente internazionali, non ha mostrato almeno uguale indignazione? Eppure su quelle barche c’erano anche cittadini italiani. E perché l’Italia televisiva non si è sentita  offesa dal veder arrestare i propri concittadini, rei di un’impresa addirittura nobile oltre che coraggiosa? Semplicemente perché il filtro mediatico ha saputo svolgere bene il compito assegnatogli dall’alto. Cominciamo col dire che l’aggettivo “internazionale” riferito alla locazione in cui le navi si trovavano quando la marina e l’aeronautica militare israeliane le hanno bloccate non è stato evidenziato.

Solo la strage sulla nave Mavi Marmara del 2010 ha goduto di una certa attenzione. La violenza messa in atto alle 4,30 della notte del 31 maggio di quell’anno fu talmente esagerata e “ gratuita” che, a parte i Feltri e compari che non prendiamo neanche in considerazione, creò un certo “disappunto” nei media cosiddetti democratici, disappunto che però non impedì loro di trovare, con artifici degni di uno straordinario prestigiatore, le giustificazioni atte a fornire attenuanti allo Stato assediante, il quale infatti riesce ancora oggi a muoversi  perfettamente a proprio agio tra illegalità e crimini quotidiani.

Ma torniamo ai verbi utilizzati dai media. Ho parlato del verbo scortare e del verbo sequestrare. Dunque, se un’imbarcazione bloccata in acque internazionali – come il vecchio e innocuo veliero Estelle dell’ultima missione, costretto sotto minaccia armata di un numero esagerato di lance e incrociatori da guerra a cambiare rotta e ad arrivare nel porto israeliano di Ashdod – viene definita nell’informazione televisiva “nave scortata fino al porto”, è abbastanza normale che l’opinione pubblica sia indotta a pensare che gli israeliani sono così bravi da aver addirittura scortato quelli che vengono descritti come loro nemici! Se i media italiani usano “scortare” per “sequestrare” e “rimpatriare” per “espellere” quei cittadini  diretti in Palestina e portati a forza in Israele, lo spettatore medio  non percepisce come fuori-legge l’operato israeliano.

Se solo fosse indotto a “pensare”, il cittadino italiano “libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi” secondo l’art. 16 della Costituzione, in cui viene anche affermato “che nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche”  potrebbe trovare contraddittorio che un paese definito come l’unica democrazia del Medio Oriente abbia comportamenti tanto lontani dal concetto di democrazia.

Ma più il concetto si confonde, meno intensa sarà la percezione di tali aporie. Soprattutto se figure classificabili come esponenti del centro-sinistra, quindi per comune pensare “democratici” organizzano eventi in omaggio al “democratico” stato di Israele promuovendo addirittura viaggi premio per giovani meritevoli affinché “imparino” da Israele come si gestisce un’azienda mettendo in pratica gl’insegnamenti appresi durante i tre anni di leva nei Territori palestinesi occupati.

Se l’occupazione non è reato, se l’apartheid non è reato, se distruggere le abitazioni palestinesi o cacciarne gli abitanti e occuparle con la violenza non è reato, se abbattere o espiantare o bruciare gli alberi (circa 3,5 milioni fino alle ultime statistiche) non è reato, se impedire alla popolazione palestinese di girare liberamente nelle proprie città non è reato, se appropriarsi delle tasse e usarne l’eventuale restituzione come ricatto non è reato, se appropriarsi dell’acqua e rivenderla a proprio arbitrio agli espropriati non è reato, se arrestare bambini anche di 5 anni  perché hanno gridato agli occupanti di andarsene non è reato, se uccidere mediamente 4 o 5 ragazzi a settimana, magari mentre stanno giocando a pallone o mentre manifestano pacificamente non è reato, se cacciare dalle terre abitate da secoli i pastori palestinesi non è reato, se costruire muri sulle terre altrui non è reato, se non rispettare 73 Risoluzioni dell’Onu non è reato e se tutto questo e molto altro viene considerato come un esempio da seguire e il Paese che ha questo patrimonio di “buone pratiche” viene considerato democratico e i suoi rappresentanti vengono accolti con tutti gli onori mostrando alla popolazione italiana quanto apprezzati siano tale amicizia e tale Paese, perché ci si stupisce se il parlare di democrazia è sempre più avulso da una reale Cultura democratica?

Forse una spiegazione la si trova nell’hasbara israeliana, cioè quel progetto che in forma strutturata e scientifica va avanti dalla fine degli anni “70 e che consiste nella costruzione di un’immagine positiva di Israele nell’opinione pubblica occidentale. L’hasbara si avvale di specialisti della comunicazione oltre che di metodi da sempre validi come la captatio benevolentiae. I primi puntano in modo preciso sull’uso delle parole e delle immagini e in fondo non è niente di diverso, se non per la raffinatezza delle modalità, dai vari ministeri della propaganda, o comunque  chiamati, che conosciamo a partire dagli anni “20 del secolo scorso. Per quanto riguarda i secondi, anche questi prendono spunto da quanto la storia, anche quella antica, ha insegnato. I pranzi, i viaggi premio per opinion maker di un certo livello, le borse di studio  per gli studenti universitari, i suggerimenti su come promuovere prodotti, artisti e intellettuali  israeliani dando discrete indicazioni di come e cosa scrivere e fotografare, sono tutti elementi dettagliatamente stabiliti per modellare l’immagine di Israele all’estero.

Come ha scritto nel 2001 Edward Said “ Mai i mezzi di comunicazione sono stati così influenti nel determinare il corso di una guerra come durante la seconda intifada dove, nel riferirsi ai media occidentali, si è trattato  soprattutto di una battaglia di immagini e di idee. … Israele ha investito centinaia di milioni di dollari in quello che in ebraico si chiama Hasbara… Poiché numerose persone e potenti mezzi di comunicazione e boss dell’editoria sono forti sostenitori di Israele, il compito non è stato difficile.

Israele, nella manipolazione narrativa, indubbiamente tanto abile quanto tentacolare, cerca di perseguire il suo obiettivo. Al di là del giudizio etico, il fatto ha una sua logica politica.  Ma l’abbraccio che il nostro Paese riserva ad Israele non è soltanto la negazione “nei fatti” dei diritti del popolo palestinese, è anche una rinuncia alla difesa della cultura democratica che è patrimonio conquistato e “promulgato” nello stesso periodo storico in cui i palestinesi subivano la  Naqba (la catastrofe).

A questo punto è lecito chiedersi: ma l’Italia, quale obiettivo persegue? Quali vantaggi porta questo adeguarsi alle indicazioni delle élites dominanti?  E a “chi” porta vantaggi?

Potrei andare avanti con gli esempi, potrei parlare dell’uso disinvolto dell’espressione “stato ebraico” per dire “stato di Israele” come fosse la stessa cosa; potrei parlare dell’aggettivo “contesi” al posto di “occupati” rispetto ai Territori palestinesi; potrei parlare dell’uso da parte dello scrittore  Yehoshua, il  grande cultore della parola ebraica, del termine di “stupidità” al posto di “reato di strage” per ridurre ad errore di intelligenza un crimine particolarmente odioso; potrei prendere in esame l’espressione “reazione sproporzionata” funzionale a nascondere il reiterarsi del reato di strage, o soffermarmi sull’inversione di ruolo, tanto politico che temporale, tra “azione” e “reazione” visto che, essendo Israele la forza occupante, qualunque agire degli occupati non può che essere un “reagire”.

Potrei proseguire per pagine e pagine, oppure potrei fare l’analisi del contenuto di un solo servizio dell’inviato Rai a Gerusalemme per mostrare come si trasmetta facilmente, dopo anni di “lessico deviante”, l’immagine di un’Israele da proteggere invece che da sanzionare. In tal modo si garantisce l’impunità delle violazioni della legalità internazionale e si favorisce il lavoro di quel virus che partendo da laggiù e trovando alleati lungo il percorso, sta impossessandosi delle basi della nostra democrazia.

Ma non credo servano altri esempi per capire che solo uno sforzo di comprensione di quei meccanismi manipolativi che inducono ad assumere come normale una società dove i diritti non sono uguali per tutti, né lo sono i doveri, può fornire la  difesa immunitaria capace di isolare il virus e d’impedire che il contagio si estenda.

Cominciamo quindi a comprendere che lavorare affinché Israele  rientri, anzi entri, nel rispetto delle norme che rappresentano il Diritto universale,   non significa solo lottare per il popolo palestinese, ma significa, anche, difendere la sempre più fragile Cultura democratica del nostro paese.

* Presidente “Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese, onlus”


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21