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La scuola deve stimolare il senso critico

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di Mila Spicola

«A mathematician who is not also something of a poet, will never be a complete mathematician» (Karl Weierstrass, 1815-1897)

Chi si interroga sull’utilità oggi degli studi classici (in particolare su quella del liceo classico) in termini di «sbocchi occupazionali», sottolineando la «necessità di puntare di più sulla ricerca scientifico-tecnica» o di «adeguare o spostare i saperi su contenuti più aggiornati» sa che gli studenti iscritti al liceo classico oggi sono solo il 6% della popolazione studentesca totale? Lo sa che i livelli di rendimento medi degli studenti del liceo classico rappresentano la nostra eccellenza sulla scala mondiale dei rilevamenti Ocse-Pisa? Il restante 94% si iscrive ad altri licei o naviga nel mare magnum delle scuole tecnico-professionali: a queste è demandato in modo più specifico un collegamento diretto con il mondo del lavoro. Quanti si interrogano, in modo più appropriato, sull’efficacia – chiamiamola nuovamente «utilità» – in termini occupazionali dei percorsi tecnico-professionali? Lo sanno inoltre che, di quel 6% circa, due studenti su tre proseguono, nei successivi percorsi universitari, con studi scientifico/tecnici: ingegneria, farmacia, medicina, scienze matematiche, fisiche, biologiche, statistiche, architettura? Qualcuno mi spiega, inoltre, perché anche le scienze umane (pedagogia, sociologia, antropologia…) sono «scienze»? Risposta: per una questione di metodo, non tanto di contenuto. Il metodo attiene alla logica ma anche alla creatività dell’intuizione. Quanta parte di merito nelle scoperte scientifiche è da affidarsi alla creatività? Quanta parte di merito alla logica e alla costruzione rigorosa è da riconoscersi invece nella «creazione» di un’opera d’arte, di musica, letteratura o arte figurativa che sia? Siamo davvero convinti che si possano separare nel cervello umano scienza e arte attribuendo loro caratteristiche che forse son più stereotipi che divisioni reali? Quanto di astratto e «inutile» c’è nella matematica e quanto di concreto e «necessario» c’è in un romanzo?

La domanda da farsi piuttosto non è «cosa serve a chi studia oggi»? Chi crede, come me, che tra 20 anni, in un mondo dinamico e in cambiamento come è quello attuale, su scala nazionale e internazionale, il 60% almeno delle professioni attuali sarà completamente inutile? E chi crede come me, che ci sarà al suo posto un 60% di «mestieri nuovi», la cui caratteristica intrinseca sarà il dinamismo? Quello che veramente «servirà» ai nostri studenti, lavoratori di domani, sono dei nuovi contenuti da fissare in curriculi, la conoscenza di strumentazioni tecnologiche che sono obsolete dopo due o tre anni, o una flessibilità mentale diversa e un «adattamento creativo» eccezionale? Allora è una questione di competenze personali trasversali maturate, non di contenuti e nemmeno di brusche classificazioni disciplinari di stampo neopositivista. La questione è una: fornire un metodo, interrogarsi su un metodo, o meglio: sapersi e sapere interrogare il mondo e se stessi, da Cartesio in poi. Dunque il «problema» della scuola oggi è come attivare e coltivare il senso critico, l’autonomia di riflessione e la capacità di creazione. Che poi li applichiamo nell’invenzione scientifica o in quella artistica secondo me poco cambia. Posto che, ad oggi, son proprio gli studi classici, dati alla mano, ad attivar meglio tali competenze. E allora la domanda dovrebbe essere un’altra: sono i licei classici ad essere obsoleti per i contenuti trasmessi o sono tutte le scuole inefficaci nel trasferire, provocare, coordinare e coltivare un metodo?

Se fosse solo una questione di sbocco occupazionale mi chiedo come mai quel 94% di studenti che seguono percorsi «concreti» e «specifici», «utilitaristici», poi non vengano collocati. Mentre, sempre ragionando coi numeri e le percentuali, il tasso occupazionale più alto rimane saldamente legato in mano alla «congrega dei liceali classici».

A che serve dunque la cultura classica? Quella che dovremmo trasferire ai nostri studenti è la capacità di vivere nel dubbio senza perdersi in esso, di cercarlo, senza paura di contraddirsi, perché è la contraddizione che crea il progresso culturale e scientifico, non il teorema. Abbiamo scelto dunque di ragionare sul tema dell’utilità degli studi classici in rapporto all’utilità per i nostri studenti. Ma c’è di più: la trasmissione culturale degli studi umanistici non è l’eredità culturale che costruisce la nostra identità individuale e collettiva di italiani a prescindere poi da ciò che decidiamo di fare? Cioè la trasmissione per «memoria» di ciò che siamo prima di quello che facciamo? Come individui ma anche come collettività.

Nei sistemi scolastici dell’era moderna convivono due istanze parimenti importanti: da un lato il bisogno degli studenti (l’utilità e la formazione per la loro vita individuale) e dall’altro il bisogno della comunità nazionale (l’utilità e la formazione per la vita collettiva, per il corpus dei cittadini). Lo studio del latino, di Seneca, di Dante, di Leonardo da Vinci o della Cappella degli Scrovegni può darsi (ma non lo credo) che sia minimizzabile nella vita e nelle urgenze di un singolo, ma è egualmente minimizzabile nell’identità collettiva italiana che è fatta, creata e ricreata e conosciuta e caratterizzata, dentro e fuori dal nostro paese, esattamente per quelle cose lì? Perché sono utili o belle o perché sono noi? E «noi» viene prima dei concetti di utilità e di bellezza, perché l’essere è pregiudiziale all’esistere. Questo «noi» si trasmette nella misura in cui siamo stati capaci di fornire un metodo che è essenzialmente riflessione, critica e creatività. Rinunciarvi non è suicidio politico o economico, è suicidio di senso e di identità. E allora, quello che si trasmette nella cultura umanistica non è tanto o solo un insieme di «contenuti» un po’ astratti o un po’ inutili alle «urgenze dell’oggi», bensì un metodo e un’identità fortissime pregiudiziali ad affrontare e risolvere in modo nuovo e identitario le urgenze di oggi. Così come il patrimonio artistico, culturale e paesaggistico italiano non sono un cassettino di gioielli (da portare al monte dei pegni per rimediar qualche soldino) di cui però la stragrande maggioranza dei nostri studenti comincia a ignorare la conoscenza perché «la storia dell’arte è inutile».

L’arte e la cultura italiane sono il segno di ciò che siamo e facciamo, non sono solo «bacini turistici» di cui siamo custodi ignari perché abbiamo perso il nostro senso. La nostra misura di presenza nel mondo sono bellezza e creatività e rischiamo di vanificarle: essenze fragilissime che hanno bisogno di certezza granitica sulla loro importanza in sé e per sé per poterle mantenere e ricreare. Invece le mettiamo in dubbio cercandone invano l’«utilità»: l’identità culturale e spirituale, delle persone come delle nazioni, non le misuri con l’utile ma con altri metri. Anche se la competenza più «utile» nel mondo di domani sarà la creatività. È presente nel nostro Dna in dosi massicce. Da un lato gioisco, dall’altro mi arrabbio nel vederla mortificata ovunque: nelle riforme scolastiche, nei finanziamenti, nelle visioni ottuse di programmazione.

Gli studi umanistici, la letteratura, i classici, la filosofia, l’arte, la musica, sono capaci di coltivare nello studio, nella riflessione e nel dubbio la creatività, non come segno di conservazione ma come premessa di ogni innovazione. «Servono» non solo al singolo, per tracciare il suo percorso esistenziale, ma anche al collettivo, nella misura in cui conservano il nostro posto specifico nel quadro futuro del mondo che, lo ribadisco, sarà sempre un ruolo della creazione e del pensiero, non solo relativo all’arte, ma a tutti gli ambiti dell’agire: alle scienze, alla politica, all’economia.

Nella scuola superiore l’emergenza primaria non è l’aggiornamento dei contenuti, lo sviluppo di competenze e nemmeno la strumentazione tecnologico-digitale, soggetta a obsolescenza nel giro di pochissimo tempo; urgentissimo è il problema di metodo, perché quello che abbiamo perso, o non abbiamo mai coltivato, negli altri tipi di scuola, è il metodo fornito e acquisito negli studi classici. Altro che eliminare o ridimensionare il liceo classico: credo che il metodo della «congrega dei liceali classici» – che passa anche per quei contenuti – sia da «esportare» negli altri percorsi di formazione tecnico-professionale, riunendo, in un nuovo Rinascimento, il pensare e il fare. Interroghiamoci sui pericoli possibili del dar valore ancillare alla conoscenza: essa non è parte della vita, è la vita stessa, diceva Dewey. È banale ribadirlo: ma se non sai pensare non sai creare e non sai nemmeno fare. Il pensiero lo coltivi con gli studi classici e umanistici. Posto che, porre come pregiudiziale e non come corollario degli studi secondari l’utilitarismo (da ripensare e rifondare invece nei percorsi universitari) finisce per eliminare le domande di senso, mettendo in crisi non solo lo studio, la scuola, la cultura, ma anche i valori fondamentali che ci fanno umani.

Da confronti.net


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