Che noia sentir ripetere in continuazione che i giovani sono il futuro e allo stesso tempo che le nuove generazioni, dei ventenni ma anche dei trentenni, sono senza speranze. Soprattutto noi giornalisti dovremmo provare ad andare oltre queste frasi fatte, quasi ormai slogan in loop. Troviamo ovunque quel drammatico “Disoccupazione giovanile supera il 40 per cento”. C’è il solito allarme per un esercito di laureati che del pezzo di carta non se ne fa proprio nulla. C’è la coda, lunga, tutte le mattine ai centri per l’impiego di tutta Italia. E poi la storia, trita e ritrita, che non ci sono più i valori di un tempo. Oltre a questo, c’è poco. Intanto si guarda con angoscia e assoluta incomprensione al mondo degli adolescenti. A parte il caso sconcertante delle due giovanissime prostitute romane, è indubbio che sia un mondo a noi sconosciuto e che per raccontarla la vita di questi ragazzini di 14/16 anni dovremmo, pur con difficoltà, provare ad entrare in questo mondo perché loro, davvero, sono il nostro futuro. E saranno anche il pubblico del futuro. Bene ha fatto la Rai a bandire il concorso per la scrittura di una sorta di carta d’identità dell’azienda: si è rivolta proprio ai giovani delle scuole, saranno loro a dover sintetizzare in poche righe la missione del servizio pubblico radiotelevisivo dei prossimi 15 anni. Dobbiamo entrare nel loro mondo per poterli avvicinare al nostro.
Credo che uno dei punti da dove il mondo dell’informazione possa ripartire sia proprio questo. Il giornalismo si occupa troppo poco dei giovani e, quando lo fa, ne parla spesso in modo superficiale. Certo anche la politica non è stata d’aiuto. Un esempio su tutti, il più noto e altrettanto eloquente: non si ha il contatto con la realtà quando si chiede di non essere choosy, di non fare gli schizzignosi, a giovani che magari, per mantenersi agli studi, hanno avuto l’umiltà, la tenacia, la grinta di affrontare lunghe serate in pizzeria a servire ai tavoli per poi andare a lezione all’indomani alle 8. Noi lo dobbiamo avere sempre questo contatto con la vita vera che, salvo alcune ovvie eccezioni, è fatta di ragazzi che per fortuna si battono ancora per avere un posto nella società. Altrimenti quella fascia di pubblico – lettori o telespettatori che siano – la perderemo ancor di più, inesorabilmente.
Raccontiamo, ad esempio, che tra i neolaureati il contratto più in voga è quello a chiamata e che la durata media non supera una settimana. Diciamo anche che ne fanno largo uso gli enti pubblici, le istituzioni, di questi “bei” contratti. Pungiamo col microfono, noi lo possiamo fare. Lo dobbiamo fare. Ho letto negli interventi precedenti l’indignazione per il ruolo del reggimicrofono che a volte viene tra l’altro delegato all’operatore di ripresa esterno. Dove sono le domande? Dov’è il confronto? Il pubblico lo merita e ha ragione a pretenderlo.
La crescita esponenziale dei cosiddetti “over the top” deve far molto riflettere perché oggi i miei coetanei (e non solo loro) per la stragrande maggioranza, le notizie le apprendono da twitter. Si vive ormai connessi 24 ore su 24 su facebook, per gli aggiornamenti in tempo reale ci sono i giornali on line, i siti web delle varie testate. L’informazione televisiva manca spesso di appeal per i giovani. Dobbiamo dar loro motivi validi per prendere in mano il telecomando. Da un lato oggi la nostra presenza sul web deve essere capillare, oserei dire invadente, per restare sul “mercato” (soprattutto immaginando le ulteriori evoluzioni tecnologiche dei prossimi 15/20 anni), dall’altro bisogna lavorare molto sul fronte dei contenuti. Il servizio pubblico, come in generale il mondo dell’informazione, deve rivolgersi a tutte le fasce d’età, ma deve saper attirare in particolare i giovani che davanti al televisore latitano. Non però con servizi allarmanti sulla disoccupazione al 40 per cento, con numeri che non spiegano davvero la realtà (questa percentuale, ad esempio, andrebbe analizzata. Come viene calcolata? Sono esclusi i giovani che stanno ancora studiando? E quelli che non cercano proprio il lavoro sono compresi?).
Quanto a noi, al futuro della nostra categoria, spero che la questione coinvolga di più i giovani colleghi. Soprattutto oggi, con il preoccupante ritorno del leit motive “Privatizziamo la Rai”. Come si fa a non pensare all’importanza assoluta dell’ppuntamento del 2016 per il rinnovo della Convenzione Stato/Rai? A metà ottobre, al convegno sul futuro del servizio pubblico radiotelevisivo, a Villa Medici a Roma, ad avere meno di 40 anni eravamo in 3. Tanti volti noti della Rai ad ascoltare gli interventi, anche quello del nostro Direttore generale Gubitosi, ma i giovani colleghi non c’erano. In questa nostra realtà, dove la sicurezza del posto di lavoro ci garantisce – almeno per ora – la serenità, dobbiamo impegnarci in prima linea per salvaguardare l’azienda, per migliorarla e rinnovarla. Fuori dalla Rai e fuori da poche altre realtà giornalistiche, lo sappiamo bene, è tutta un’altra storia. Sopravvivere per chi ha scelto questa professione è molto difficile. C’è tanta amarezza per il pezzo sudato che viene pagato due lire. E non a un ragazzo appena uscito dalla scuola superiore. Anche a un trentenne che magari ha una famiglia a cui pensare. Io mi ritengo fortunata, ma ho i piedi ben piantati a terra: amici mi raccontano di una vita da acrobati per racimolare, tra una collaborazione e l’altra, i soldi per mangiare e pagare l’affitto. La nostra categoria deve fare i conti con questo, e non basta la legge sull’equo compenso che certo è un buon passo avanti. E’ vero, incombe una crisi pesantissima del mondo editoriale ma, andando avanti così, si finirà per svilire una professione che non può e non deve viaggiare su compensi al limite del ridicolo.
Mi è capitato di parlare pochi giorni fa con un gruppetto di adolescenti, dicevano che è inutile andare all’università, che è inutile inseguire un sogno. “A me piace molto scrivere”, mi ha detto un ragazzino, e lì io mi sono illuminata. Ma subito ha aggiunto: “Mi conviene però fare l’elettricista o l’idraulico, si guadagna molto di più”. A quel punto gli ho detto che certo, queste figure sono richieste e che di lavoro ne avranno sempre, ma non posso accettare che a 16 anni non ci siano i sogni, che la disillusione ti spinga a non provarci nemmeno e a virare su guadagni più facili e immediati, perché “se no finisce che faccio la fame”. E su questo apro una piccola parentesi. Oggi per diventare giornalisti non si può essere poveri. Mi spiego meglio: c’è solo una piccola fetta di giovani colleghi diventati giornalisti dopo aver svolto i due anni di praticantato retribuito sul campo. La maggioranza arriva, come me, dalle scuole di giornalismo. I costi sono altissimi. Borse di studio pochissime, quando l’ho fatta io la scuola – nel 2006 – zero. Senza i genitori alle spalle è difficilissimo poterselo permettere. Lavorare contemporaneamente è durissima perché la scuola è a tempo pieno, poi ci sono gli stage… Poi magari, terminata la scuola, con sacrifici economici non da poco, il lavoro comunque non c’è e si finisce a collaborare a pochi euro a pezzo. Se vogliamo ripensare la nostra professione, non possiamo ignorare tutto questo.
Quanto ai sogni, io a 16 anni li avevo, non è passato un secolo. Certo, questa violenta crisi economica non era nemmeno immaginabile. Era il 2000. Le famiglie si permettevano cose alle quali ora nemmeno hanno il coraggio di aspirare. Io allora ho potuto inseguire il mio sogno con l’università, la scuola di giornalismo e poi, grazie alla selezione del 2008 per Buongiorno Regione, questo sogno oggi lo realizzo giorno dopo giorno. Vorrei che le nuove generazioni credessero nel futuro e in particolare in quello della nostra professione, che contribuissero a infonderle nuova linfa. Ne ha davvero bisogno.