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Se il pensionato diventa il nemico da abbattere

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Spiegavano due grandi sociologi, Georg Simmel e Lewis Coser, che il conflitto sociale in un contesto democratico non solo è vitale ma è anche necessario per garantire un certo ordine e una certa unità fra gli individui. Non solo, ma secondo i due il conflitto è addirittura funzionale alla creazione di un’effettiva integrazione sociale in quanto non c’è dubbio che esso favorisca la nascita di un sentimento di identità di gruppo.

Non a caso, al netto della sua tragicità, uno dei momenti fondativi ed eroici di qualunque nazione, è costituito proprio dalle guerre, al punto che qualcuno è arrivato addirittura a sostenere che le migliori costituzioni si scrivano proprio al termine delle grandi catastrofi quale fu, ad esempio, la Seconda Guerra Mondiale per il nostro Paese. E aggiunge Randall Collins, docente di Sociologia nell’Università della Pennsylvania, che secondo Simmel “un gruppo ha persino un certo interesse a mantenere l’esistenza sociale del suo nemico. Infatti se il conflitto con l’esterno è l’unica cosa che mantiene unito il gruppo – poniamo, una tribù, la cui leadership centralizzata emerge solo in tempo di guerra – allora una completa vittoria e la distruzione del nemico significano anche la distruzione del gruppo stesso. Non stupisce quindi che i leader di un gruppo possano cercare di nascosto di mantenere i propri nemici. Nell’età moderna esiste sicuramente un’alleanza segreta tra le fazioni più militariste di paesi nemici: gli enormi bilanci militari sia degli Stati Uniti che dell’ex URSS dipendono dal fatto che entrambe le parti alimentano attivamente il conflitto”.

A tal proposito, è indimenticabile la celebre frase di Georgij Arbatov, consigliere di politica estera di molti capi sovietici, il quale, comprendendo l’imminente collasso dell’Unione Sovietica, ammonì l’Occidente trionfante: “Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico”.

Tutto questo, fatte le debite proporzioni, per commentare ciò che sta avvenendo in Italia a proposito del sistema pensionistico: uno degli argomenti più gettonati delle ultime settimane, tanto da indurre l’insigne presidente dell’INPS, Antonio Mastrapasqua, a paventare di non poter, a breve, più pagare gli assegni pensionistici a causa dei debiti dell’INPDAP (ente inglobato da Monti all’interno dell’INPS, con un’operazione la cui scarsa lungimiranza è sotto gli occhi di tutti) e della riduzione dei contributi da parte dei lavoratori ancora in attività.

La categoria più bersagliata, naturalmente, sono i cosiddetti “pensionati d’oro”, cioè coloro la cui unica colpa è quella di essere nati quando ancora il liberismo non era considerato un dogma di fede, l’Europa era quella di Spinelli e De Gasperi e il concetto di stabilità era ritenuto un bene e non un qualcosa di demoniaco del quale liberarsi ad ogni costo. Mi riferisco, con ogni evidenza, alla generazione dei “baby boomers”, figli dell’entusiasmo e della voglia di vivere che dilagò in Italia al termine del secondo conflitto mondiale e oramai prossimi alla pensione o finalmente a riposo dopo quarant’anni di lavoro. Ebbene, nei confronti di questa categoria, la cui unica colpa, ripeto, è quella di esser nati in un’epoca di relativo benessere, si è scatenata un’autentica caccia all’uomo, con talk show noiosi, populisti e sempre meno seguiti nelle vesti di moderni Savonarola e una politica debole, incompetente e priva delle benché minima autonomia di pensiero al seguito, tutti a ripetere il mantra secondo cui “i padri hanno derubato i figli, togliendo loro certezze e prospettive per il futuro”.

Ci sarebbe da ridere se non fosse che i protagonisti di questi salotti sono gli stessi che poi legiferano sulla nostra pelle, gli stessi che stanno dimostrando di non possedere una sola idea per condurre il Paese fuori dalla crisi, gli stessi che annaspano alla disperata ricerca di coperture che non esistono e non esisteranno mai fino a quando non avremo il coraggio di andare a battere realmente i pugni in Europa e far presente che l’Italia è uno stato fondatore dell’Unione e merita ascolto e rispetto, gli stessi, in poche parole, che oggi hanno un assoluto bisogno di inventarsi un nemico e additarlo al pubblico ludibrio.

Ora, per carità, lungi da me qualsiasi cedimento al populismo e alla retorica qualunquista del “sono tutti uguali”: sono perfettamente cosciente del fatto che in Parlamento, soprattutto a sinistra, e al governo, grazie alla meritoria azione di Enrico Letta, vi siano moltissime persone perbene che condividono questo mio punto di vista; fatto sta che, come sempre accade nei momenti di crisi, non sono le persone perbene ad emergere ma i demagoghi da due soldi, coloro che millantano di avere il Sole in tasca, di possedere la risposta a ogni problema; e vanno avanti a colpi di slogan, frasi fatte, luoghi comuni, battute più o meno insulse che non fanno ridere nessuno, comparsate televisive altrettanto insignificanti e consensi di plastica, destinati a svanire nell’arco di poco tempo ma comunque sufficienti per consentire loro di distruggere quel po’ di welfare state che è sopravvissuto, nonostante tutto, all’uragano liberista che ha devastato l’intero Occidente e il Sud Europa in particolare.

Non sorprende, dunque, il fatto di leggere e ascoltare in continuazione un nugolo di saccenti che, non avendo niente da proporre, tenta di accattivarsi le simpatie dei giovani, senza avvenire e oramai rassegnati a una condizione di indigenza, esortandoli a scagliarsi contro i loro genitori e nonni, rei di aver incontrato sul proprio cammino una classe dirigente meno impresentabile di quella attuale che ha garantito loro diritti, tutele e un minimo di stabilità e certezze per quando sarebbero stati anziani e bisognosi di cure e assistenza.

Ed ecco allora l’odio, l’invidia sociale, l’aggressione verbale violenta e malvagia, il massacro vigliacco dei più deboli, di chi non ha né i mezzi né le risorse finanziarie per far sentire la propria voce né, tanto meno, la possibilità di scioperare e far comprendere alla popolazione il proprio disagio. Ecco la mancanza di rispetto, la definizione sprezzante di “vecchi”, l’accusa selvaggia e intollerabile di aver beneficiato di non si sa quali privilegi, l’invocazione di una giustizia che, in realtà, ha il sapore amaro della vendetta, della faida medievale, del regolamento di conti, del duello all’ultimo sangue con un avversario che non è in grado di difendersi e, pertanto, è destinato a soccombere e a vedersi smantellati barbaramente i propri diritti.

Perché di questo si tratta, né più e né meno: di una ferocia indiscriminata e demagogica che accomuna il super-manager da novantamila euro lordi al mese al medio-borghese da cinquemila (circa duemilasettecento netti) che, magari, ha lavorato per quarant’anni, che ha reso un servizio alla società senza paragoni, che consente oggi, con i propri sacrifici, di garantire quel minimo di welfare cui lo Stato non è più in grado di provvedere a causa degli sprechi, delle malversazioni, dell’incompetenza e dello spirito rapace di troppi suoi rappresentanti.

Perché nessuno è contrario a un significativo contributo di solidarietà da parte di chi ha di più nei confronti di chi oramai è costretto, per mangiare, a recarsi alla mensa della Caritas, purché il suddetto contributo sia ripartito in maniera equa e posto a carico di tutti coloro che percepiscono determinati redditi, non solo dei pensionati.

E perché, infine, l’idea di porre il contributo di solidarietà unicamente a carico dei pensionati, pur sapendo benissimo che si tratta di una norma incostituzionale che la Consulta casserà nel giro di pochi mesi, serve soltanto a picconare ulteriormente il concetto stesso di diritto, costruendo ad arte il consenso popolare per il definitivo smantellamento della democrazia.

Non per niente, l’ultimo luogo in cui qualcuno ha marchiato e condannato degli esseri umani inermi per il solo fatto di esistere si chiamava Auschwitz, e lo spirito dei carnefici di allora non era poi tanto dissimile da quello di chi oggi pensa che sia giusto far pagare agli anziani il prezzo della propria frustrazione o della propria incapacità di addebitare il conto della crisi a chi davvero l’ha causata.


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