Come giornalisti animati dal desiderio di rottamare il vecchio per il nuovo, e mentre Renzi annuncia di voler riformare la giustizia (ma comincia dalla responsabilità civile dei giudici anziché dalla giustizia di classe, vedi Cancellieri-Ligresti), spero che i nostri lettori abbiano visto il film Il Quinto potere, dove assolutismo giudiziario e assolutismo mediatico confliggono e si alleano. A danno delle persone e, a volte, della vecchia stampa. Il quinto potere è quello di WikiLeaks, che credo significhi “fuga di notizie”, organizzazione mondiale volontaristica fondata dall’australiano Julian Assange. Essa rovescia sul web, “in nome della verità e di nient’altro” – così proclama -, centinaia di migliaia di documenti segreti: di stato, militari, industriali, bancari, religiosi, trasmessi anonimamente (salvo l’arresto del soldato spia Bradley Manning condannato a 35 anni e la fuga dello stesso Assange nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra).
Il film di Bill Condon è affascinante (altrimenti, col linguaggio iniziatico del web e con la complessità dei casi svelati, lo spettatore non reggerebbe 120 minuti). A me, oltre ad aprire scenari ignorati, ha richiamato anche immagini che nella vita professionale mi hanno segnato: dalla falsa invenzione radiofonica di Orson Wells (sono sbarcati i marziani), a “E’ il giornalismo,bellezza, e tu non ci puoi fare niente”, di Humphrey Bogart contro il mafioso). Mi ha richiamato anche la giustizia di magistrati-terrieri, che davano ergastoli ai contadini, lombrosianamente colpevoli. Per non dire della storia degli infiniti “assoluti”, non solo del Novecento, ma dei precedenti millenni: sempre missionari e volontaristici, come le orde paleocristiane che distrussero la civiltà ellenistica-romana, Fino ai tagliateste della rivoluzione francese, passati dalla cultura dei Lumi a quella dell’Incorruttibile, come si autodefiniva ed era ritenuto Robespierre.
Anche Assange, inquietante personaggio asessuato che predica e pratica in grande la nuova religione del web (altro che Grillo e Casaleggio), è l’Incorruttibile: svela la realtà di Guantanamo, i delitti di stato in Kenia o in Somalia, i macelli in Afganistan dopo l’11 settembre, i segreti del Pentagono. Un Incorruttibile che predica il passaggio dal quarto potere (di cui tuttavia si serve per copertura: Guardian, Der Spiegel, New York Times) al quinto potere: appunto il giornalismo collettivo, protetto dall’anonimato assoluto, di migliaia di collaboratori che inviano file, tra i quali il Grande fratello sceglie i più documentati. Nulla di più suggestivo, in tempo di grandi orecchi orwelliani (Usa, poi Russia, poi verranno altri). “La verità e nient’altro”, proclama Assange (in piccolo, “tutti a casa”, proclama Grillo). Ma chi garantisce che quella verità sia vera, sia tutta la verità? Garantisce lui, l’uomo al comando di anonimi missionari. Nei secoli, milioni di innocenti (riconosciuti tali post mortem) sono finiti sul patibolo per aver violato “La Verità”. Finora l’unico rimedio approssimativo inventato per ridurre il rischio della degenerazione del potere (e dei poteri, quarto e quinto compresi) è stata la democrazia: cioè il conflitto alla luce del sole, con una legge garante (per quel che può) dei diritti e dei doveri di ciascuno. Gran bel film, ma il problema sta immensamente oltre.