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Quel bollino sui programmi del servizio pubblico

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Il contratto di servizio RAI-Stato 2013-2015, attualmente all’esame della Commissione parlamentare per l’indirizzo e la vigilanza, presenta una sconvolgente novità introdotta dal Ministero dello Sviluppo economico: la riconoscibilità, all’art. 1 lettera e), dei programmi finanziati col canone, che nel successivo art. 18 comma si identificano con quelli «rientranti nell’ambito dell’attività di servizio pubblico» (da identificare con un bollino di diverso colore). Ebbene, come risulta dall’articolo 6, l’intrattenimento non fa più parte dei programmi del servizio pubblico radiotelevisivo!

Una novità sconvolgente perché – se si escludono le risalenti iniziative di Felice Confalonieri volte a far identificare come “servizio pubblico” i singoli programmi televisivi di natura culturale (al fine di consentire a Mediaset di godere di una parte delle entrate del c.d. canone d’abbonamento) – è sempre stato pacifico che il  «servizio pubblico generale radiotelevisivo» identifica «la complessiva programmazione, ancorché non informativa, della società concessionaria», come  recita l’articolo 1 lettera m) del Testo Unico della Radiotelevisione del 1985 voluto dal centro-destra.
Ciò risultava già dall’importante sentenza n. 826 del 1988 della Corte costituzionale, nella quale – di fronte al tentativo di differenziare la disciplina costituzionale delle emittenti locali che si limitavano a irradiare «programmi di puro spettacolo», da quelle “anche” informative – la Consulta statuì recisamente di aver «negato rilievo a siffatta distinzione» e di aver «sempre inteso l’informazione in senso lato ed onnicomprensivo, così da includervi qualsiasi messaggio televisivo, vuoi informativo, vuoi culturale, vuoi comunque suscettibile di incidere sulla pubblica opinione».

Più di recente, mentre il Parlamento europeo, in una risoluzione del 1996, ha ritenuto che la programmazione del servizio pubblico deve presentare un «insieme equilibrato di intrattenimento, cultura, divertimento e informazione», la Commissione europea, nel valutare, nel 2003, la proporzionalità del finanziamento dello Stato alla RAI, ha implicitamente riconosciuto che tutta la programmazione della RAI costituisce servizio pubblico, escludendo dal finanziamento col canone soltanto i «costi che potrebbero essere collegati allo sfruttamento commerciale del servizio pubblico e di altre attività commerciali». In tal caso si verificherebbe infatti un’ipotesi di “aiuto di Stato”, notoriamente vietato.

Ciò che deriva da tutti questi dati inconfutabili è che il servizio pubblico radiotelevisivo configura, diversamente da quanto opina il Governo Letta, non i singoli programmi ma la “complessiva” attività della concessionaria che dovrebbe caratterizzarsi sotto tre aspetti: la ricerca e l’innovazione tecnologica, la qualità della programmazione e i limiti modali che dovrebbero riguardare i giornalisti, i conduttori e i presentatori (che non sono, né gli uni né gli altri, «i signori della radio», come statuì nel 1961 il Tribunale costituzionale federale tedesco con riferimento al servizio pubblico). Dovrebbe allora concludersi che negli intenti del Governo l’intrattenimento potrebbe tranquillamente ancor più scadere di qualità, senza che il servizio pubblico abbia a risentirne.
Il discorso sul servizio pubblico radiotelevisivo non può evidentemente  risolversi in queste poche battute. Chi ne discute non dovrebbe comunque confondere il “dover essere” della Rai con il suo ’”essere”, il quale se ha un lontano passato glorioso, ha un immediato passato assolutamente deludente.

Ciò premesso, non è però difficile accorgersi che dietro il tentativo di identificare il servizio pubblico con i singoli programmi (anziché con la complessiva attività di servizio pubblico «esclusivamente finalizzata ad interessi generali della comunità») c’è una chiara  volontà intesa alla “privatizzazione” pro parte di un bene comune di tutto il popolo italiano, che fino a pochi anni fa era unanimemente identificato come la nostra maggiore istituzione culturale (di cui programmi di intrattenimento come “Quelli della notte” e “Indietro tutta!” avevano tutti i titoli per farne parte).
Non è quindi un caso che nello stesso contratto di servizio si accenni anche, all’articolo 23, ad una consultazione pubblica «in previsione della data di scadenza della concessione del servizio pubblico». Il Ministero dello Sviluppo economico intende muoversi prima del Parlamento su un tema di tale importanza?

* Pubblicato su la Repubblica il 18.10.2013


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