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Riforme costituzionali, il documento redatto dai Magistrati di “Area”

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Pubblichiamo il documento con osservazioni critiche sul processo di riforme costituzionali redatto dai Magistrati di “Area” un coordinamento fra magistrati di varie componenti e provenienze

Il processo di riforma della Costituzione intrapreso dal governo delle “larghe intese” e coagulatosi nel disegno di legge costituzionale d’iniziativa governativa n. 813 del 2013 – recante l’Istituzione del comitato parlamentare per le riforme costituzionali – suscita preoccupazione; preoccupazione confermata dalle ultime dichiarazioni del Presidente del Consiglio che, in sede di dibattito sulla fiducia, ha rilanciato l’esigenza di procedere con rapidità sul terreno delle riforme costituzionali.

Sulla scia di quanto avvenuto con l’istituzione della Commissione bicamerale del 2007 – legge costituzionale 24 gennaio 1997 n. 1, peraltro esitata in un fallimento – si pone ancora una volta mano alla Carta attraverso una deroga all’art. 138 della stessa e la configurazione di un procedimento straordinario di revisione dei titoli I, II, III e V della seconda parte e delle norme strettamente connesse.
In nome di un presunta efficacia del processo riformatore e dell’urgenza imposta dalle necessità dell’economia, vengono rimossi e ridotti gli aggravamenti procedurali scolpiti dall’art. 138 a baluardo della rigidità della Carta e del suo patrimonio di diritti inviolabili, giustizia sociale, dimensione dello Stato democratico-pluralista.
Lo smantellamento delle garanzie procedurali dell’art. 138 è plasticamente raffigurato dalla riduzione dell’intervallo tra la prima e la seconda approvazione da parte di ciascuna camera – la c.d. pausa di riflessione – dal periodo minimo di tre mesi al periodo minimo di 45 giorni ed è completato dall’accelerazione impressa dal c. d. cronoprogramma: i lavori parlamentari dovranno essere organizzati in modo tale da concludersi entro 18 mesi dall’entrata in vigore della legge costituzionale di istituzione del Comitato.
Tali semplificazioni e accelerazioni vengono soltanto in parte temperate dalla possibilità di espletare il referendum popolare anche in caso di seconda approvazione da parte di ciascuna camera con la maggioranza dei due terzi.

Un processo di revisione, dunque, che potrebbe estendersi fino al cambiamento radicale della forma di governo e che per il momento lascia sul campo soltanto il logoramento del principio di rigidità della Costituzione, l’attrazione del processo di revisione costituzionale nell’orbita della funzione di indirizzo politico e la messa a punto di un pericoloso espediente – la deroga all’art. 138 – che consegna la disponibilità della Costituzione nella mani della maggioranza politica del momento.
La gravità della ferita inferta alla rigidità della Carta è amplificata dalla pretesa politica di legare indissolubilmente il destino del governo al destino delle riforme costituzionali e di condizionarne così gli esiti.
Il tutto nel contesto di una preoccupante disattenzione manifestata da tutto l’arco delle forze politiche presenti in Parlamento e palesata dal silenzio col quale sono stati recepiti gli appelli ai singoli parlamentari provenienti da ampi settori del costituzionalismo e dell’associazionismo italiano.

Occorre ribadire con forza che il principio di rigidità della Costituzione, sottratto a ogni modifica e presidiato dalle procedure aggravate di approvazione delle leggi di revisione dell’art. 138, non è stata pensato dai costituenti per sancire l’assoluta intangibilità della Carta, ma per garantire che ogni revisione del fondamentale patto di cittadinanza potesse avvenire in un contesto il più possibile simile a quello costituente, comprensivo del più ampio spettro di forze politiche – di maggioranza e soprattutto di minoranza – e svincolato dall’indirizzo politico dominante.
In conformità, peraltro, con quanto accade nei Paesi che comunemente vengono presi a modello di efficienza decisionale dei processi democratici, nei quali la revisione delle legge fondamentale è ammessa, ma nell’ambito di procedure ancora più rigide e complesse di quelle sancite dall’art. 138. Negli Stati Uniti la revisione è possibile nelle ridotta forma dell’emendamento, la cui semplice proposta deve essere avanzata dai due terzi dei componenti del Congresso o dai due terzi delle assemblee dei vari Stati.

Davanti a una politica immemore della circostanza che le sole riforme costituzionali portate avanti con successo sono state quelle incanalate sui binari dell’art. 138, il bisogno che semmai si avverte è quello di rendere ancora più forte la garanzia di rigidità della Carta, per mettere al riparo la Costituzione da avventure promosse da maggioranze politiche del momento. Tanto più in una fase in cui la composizione della rappresentanza politica è alterata da un meccanismo elettorale che rescinde il legame tra volontà popolare ed eletti e rischia di consegnare il governo a forze minoritarie.
Occorre sottrarre la Carta al ricatto delle maggioranze politiche e riaffermare con forza che la Costituzione è patrimonio inalienabile del popolo italiano.
Proprio quest’ultimo, con il voto contrario al progetto di revisione della II parte della Costituzione (A.S. n. 2544, XIV legislatura, c.d. “Bozza di Lorenzago”)che circa 16 milioni di italiani hanno espresso nel referendum del 25 e 26 giungo 2006, l’ha nuovamente eletta a “via maestra” e stella polare della vita pubblica e dei rapporti sociali.
La difesa della costituzione non è conservazione.
Altre, però, sono le auspicabili riforme di cui il Paese ha bisogno. Riforme volte ad aggiornare e sviluppare il disegno della legge fondamentale, ma in linea di continuità con i valori di una Costituzione, la quale, soprattutto nel contingente periodo di crisi economico-sociale, evidenzia una sola, urgente necessità: essere attuata.


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