Censis: il 93% degli internauti teme che la propria privacy possa essere violata online

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C’è chi la privacy la intende come “…lasciatemi fare quello che mi pare, a voi non deve interessare…”, anche se ricopro cariche pubbliche. E qui, naturalmente, si entra in un ambito assai delicato che purtroppo ha inquinato almeno un ventennio della storia del Paese. E chi, invece, intende la privacy come diritto alla riservatezza, il diritto cioè della persona di controllare che le informazioni che la riguardano (per esempio la tracciabilità dei cellulari o gli indirizzi di posta elettronica personali) vengano trattate o guardate da altri soltanto in caso di necessità.

Le norme sulla privacy, nate intorno alla fine degli Anni ’90, sono state percepite da molti con fastidio, burocratiche, superflue. Poi l’evoluzione delle tecnologie digitali online e, soprattutto, l’esplosione dell’utenza, passata da poche centinaia di migliaia a oltre il 60% della popolazione italiana, ha fatto scattare l’allarme. Oggi si parla di privacy in estinzione,  e si punta il dito contro i big player della Rete, accusandoli di tracciare e registrare le nostre attività online, di intercettare i nostri sentimenti, di catalogare le nostre relazioni attraverso i social network, di sapere sempre dove ci troviamo tramite i sistemi di geolocalizzazione.

Oggi, più di otto italiani su dieci sono convinti che su Internet sia meglio non lasciare tracce (83,6%), che fornire i propri dati personali sul Web sia pericoloso perché espone al rischio di truffe (82,4%), che molti siti estorcano i dati personali senza che ci se ne possa accorgere (83,3%). E per il 76,8% è pericoloso anche usare la carta di credito per gli  acquisti online. E’ quanto emerge dall’annuale ricerca del Censis condotta per conto dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, che quest’anno è stata significativamente intitolata ‘Il valore della privacy nell’epoca della personalizzazione dei media’.
Ma dallo studio, come da analoghe rilevazioni condotte all’estero, emerge anche una prima macroscopica contraddizione: come infatti si conciliano tali convinzioni con la pratica sempre più diffusa di quella voglia di esserci, che induce una massa di utenti a mettere nella Rete proprie foto, indirizzi, sentimenti, prese di posizione, voglia di esserci che spinge gli analisti dell’istituto a usare il termine “narcisismo”? Un’esibizione denudata del sé digitale, dove il bisogno di condivisione prevale sul diritto alla riservatezza?

Secondo il Censis, il 93% gli utenti Internet teme che la propria privacy possa essere violata online e il 32% lamenta di avere effettivamente subìto danni. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, si tratta della ricezione di pubblicità non richiesta. Gli internauti manifestano maggior fiducia verso i siti Web degli enti pubblici rispetto a quelli orientati al business, ma complessivamente quasi tutti gli italiani (96,2%) considerano inviolabile il diritto alla riservatezza dei propri dati personali e temono – anzi sono sicuri – che possano essere sfruttati a scopi commerciali o politici, spingendosi a ritenere che in un futuro che è già oggi il potere sarà nelle mani di chi ne deterrà il maggior numero. E per questo chiedono norme e sanzioni più severe contro chi viola la privacy in Rete. Siamo in piena “era biomediatica, si legge nel rapporto. E mentre è sempre più diffusa l’abitudine di mettere online i propri “fatti” tramite i social network”, siamo quasi tutti convinti che i grandi operatori del Web, come Google e Facebook, possiedano gigantesche banche dati per usarcele contro, o quantomeno a nostra insaputa.

Panico. Eppure, sono pochi coloro che adottano individualmente almeno una delle tecniche di tutela della propria identità digitale (limitazione dei cookie, personalizzazione delle impostazioni di visibilità dei social network, navigazione anonima). Sembra che prevalga un atteggiamento di accettazione delle “regole del gioco”: se non autorizzo il trattamento dei miei dati, non accedo al servizio che mi viene offerto da quel sito. Una forma di pagamento, insomma, per esserci anch’io.

E così, mentre in Europa ha cominciato a diffondersi l’idea che debba essere l’utente, prima ancora dello Stato, quantomeno a tentare di autoproteggersi (e su questa linea sembra orientato Antonello Soro, presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali), in Italia pochissimi ritengono che la legislazione vigente in materia di privacy sia soddisfacente, mentre molti (il 54%) la vorrebbero più rigorosa e ben il 70% guarda con favore all’introduzione nel nostro ordinamento giuridico del “diritto all’oblio” – così come avvenuto recentemente in California – e cioè che le informazioni personali sul nostro passato potenzialmente negative o imbarazzanti dovrebbero poter essere cancellate dalla Rete quando non sono più funzionali al diritto di cronaca.

Sembrerebbe dunque una situazione senza uscita. Eppure, la luce in fondo al tunnel potrebbe arrivare dai cosiddetti “sottoinsiemi”. Da un lato, è vero, nei gruppi in Rete di cui facciamo parte – perché ci riconosciamo come tifosi della stessa squadra, o perché particolarmente sensibili ai temi dell’ambiente, o con le stesse simpatie politiche o convinzioni religiose o tendenze sessuali – troviamo infallibilmente una forte dose di omologazione che può indurci all’intolleranza verso altri che, presenti in Rete, non appartengono al nostro gruppo (non condividono il nostro profilo). E’ però anche vero che nel nostro sottoinsieme può – e dovrà – svilupparsi una certa “cultura della privacy” che può significare, per esempio, che online mettiamo soltanto ciò che è indispensabile. Per esserci.


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