Ci vuole coraggio. Nel prossimo rinnovo del nostro contratto di lavoro, prima di tutto. E nel sindacato, nella sua organizzazione interna e nel superamento delle divisioni ideologiche tra correnti. Perché siamo in ritardo. E solo un grande coraggio – condiviso da tutti – può permetterci di fare il salto necessario per colmare la distanza, purtroppo molto ampia, tra regole vecchie, anzi oramai antiche, e realtà della professione.
Il contratto, dunque, prima di tutto. Da quando ho iniziato a fare sindacato, 24 anni fa, la metà esatta della mia vita, ho sempre dibattuto della necessità di rivedere profondamente e riscrivere le normr del libretto azzurro, rosso, violetto, verde… Un insieme di articoli su cui poggiano i nostri diritti (e molti dei nostri doveri) costruito nei decenni con aggiunte, limature, modifiche; mai ripensato veramente e aggiornato affacciandosi al di là delle redazioni più grandi, dei quotidiani più noti, della sola carta stampata. È stato giusto ed è andata bene così, per un periodo molto lungo. Ma negli ultimi anni i nodi sono venuti tutti al pettine. Con le trasformazioni tecnologiche, inspiegabilmente sottovalutate – a volte avversate – dalla categoria oltre che dagli editori. E con l’esplosione del precariato, altrettanto sottovalutato e, a volte, persino negato.
Nel 2009, qualcosa è stata fatta. Un piccolo inizio dopo otto anni dall’ultimo rinnovo contrattuale e con un’industria già trasfigurata da almeno un decennio di repentini cambiamenti. Ora dobbiamo fare il resto. Guardando in faccia la realtà di un sistema dell’informazione radicalmente cambiato, sprofondato in una crisi di modelli di business e organizzativi prima ancora che economica.
Dobbiamo con determinazione andare oltre quelle regole contrattuali che impediscono lo sviluppo della professione e dell’occupazione, disegnare nuove forme di organizzazioni del lavoro capaci di rispondere a un giornalismo che, per restare di qualità, per aumentare la sua qualità e il suo valore insostituibile nella sconfinata offerta di “notizie”, deve rivendicare il suo ruolo su tutti i media, tutte le piattaforme, in ogni orario, in ogni giorno. Rinunciando forse a qualche “privilegio” ma impedendo agli editori – vecchi e nuovi, tradizionali e digitali – di darsi alibi e trovare ragioni per lo sfruttamento sistematico e colpevole di un’intera generazione di giornalisti.
Non è uno scambio di compromesso. Rivoluzionare l’organizzazione del lavoro, rivedere ritmi e orari nelle redazioni, introdurre nuove figure professionali, sanare gli abusi e trovare garanzie vere per i freelance, ripensare – anche – la composizione e la struttura della nostra retribuzione, sono interventi essenziali, nel loro insieme, per la nostra professione, per un’informazione di qualità, per un giornalismo libero e non ricattabile, per non essere “postini” né “reggimicrofono”. E anche per la sopravvivenza dei nostri istituti e del welfare della categoria. A che cosa servirebbe una manovra-tampone che porta, oggi, un po’ di respiro economico nelle casse previdenziali se non riusciremo ad affiancarla a un’operazione di sviluppo reale, progressivo e duraturo dell’occupazione?
Ci vuole coraggio. E velocità (non fretta). In un sindacato più abituato ai ritmi lenti e stantii dei confronti tra correnti e ideologie che avvezzo al confronto leale tra donne e uomini capaci di mettere sul tavolo idee, osare in prima persona, impegnare la propria, personale, credibilità su progetti di lungo respiro e, in certi casi, di scarsa popolarità. Donne e uomini di buona volontà, si direbbe in altri luoghi. Perché chi fa sindacato in questo momento così difficile, tra gli stati di crisi che sembrano non finire, i drammi veri di tanti colleghi che hanno perso sicurezze, oltre che il lavoro e lo stipendio, e spesso chiedono risposte difficili da trovare, il dolore profondo che si respira nelle redazioni che chiudono, e non riapriranno, i troppi giornalisti che hanno conosciuto solo precarietà e soprusi; chi fa sindacato in questo momento, deve sottrarsi alla tentazione della mera ricerca del consenso, dell’obiettivo unico di una prossima elezione, della perenne, sterile, e sempre perdente, guerra tra “correnti”.
I colleghi sono stanchi da anni di giochi, strategie, tattiche, e della perenne campagna elettorale. Hanno chiesto a tutti e a ognuno di noi di superare riti e steccati, e di pensare alle cose concrete. Il sindacato è fatto di persone che vogliono, e sanno, impegnarsi. E di progetti concreti. Troviamoci, presto, a discutere di questi progetti. E poi portiamoli avanti insieme. Senza stemmi e senza appartenenze. Senza demagogie. Senza lo sguardo fisso sul prossimo Congresso. Ma, finalmente, con coraggio.
* Vicesegretario Fnsi
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