Nella riflessione sui “giornalisti postini” che dà l’avvio a questo forum sull’ informazione, c’è qualcosa- non me ne voglia l’autore Stefano Corradino- che mi suona come datato. Come antico. Che mi sa di passato. Di deja vu.
Il videomessaggio di un berlusconi condannato, preannunciato per giorni e giorni, quasi atteso dai mass media, inviato alle tv e teletrasmesso- da qualcuno dei suoi “postini”- nella sua lunghezza integrale, non è che una coazione a ripetere; la rappresentazione finale di un potere che ha ruggito per quasi un ventennio, ma che, forse, ora è arrivato al crepuscolo. Mi viene da dire: l’espressione di un regime che fu. Regime che comunque è riuscito piegare a sua immagine il sistema informativo di questo paese.
C’è qualcosa di strano in questa fase della politica italiana, piena zeppa di tabù e di cose non dette. Di complicità sottobanco. Di galleggiamenti.
C’è la mancanza di un sipario che cala. Quasi si volesse un trapasso dolce, morbido, indolore e insapore. Senza memoria. Senza che nessuno alla fine paghi il conto.
C’è qualcosa di strano in questo finale di partita dove non compare la parola fine, anche se ormai pare nell’ angolo il protagonista di un ciclo politico che passerà alla storia per il suo macroscopico, bulimico, selvaggio conflitto di interessi; unico nel mondo delle democrazie occidentali.
Un conflitto che ha avuto proprio nei mezzi di informazione la sua arma strategica.
Arma di distrazione di massa. E di distruzione dei principi costituzionali.
Un conflitto che la politica non ha voluto nè saputo arginare, alimentandolo anzi per venti anni. E l’informazione nemmeno.
Vorrei andare oltre i “giornalisti postini”, e provare a ragionare sui guasti che tutto questo ha lasciato e lascerà. Riflettere sulle profonde ferite. Sulle macerie del ventennio berlusconeide. Sul quanto siamo cambiati e ci siamo assuefatti.
Non giriamoci intorno: in questi anni l’informazione italiana si è piegata al re. Si è fatta corrompere, intimorire, blandire, domare. Sottomettere. Dettare i temi e l’agenda.
Certo. Quando si è parlato di bavagli, di limitazioni formali del diritto/dovere di informare, i giornalisti italiani hanno saputo fare muro, fare quadrato. E difendersi.
Quando si è trattato di rompere il velo sulle frotte di escort che spuntavano dalle inchieste di Bari prima e di Milano poi, giornaliste e giornalisti non si sono tirati indietro.
Ma il logorio, lo stress quotidiano che il regime ha imposto al sistema dell’informazione nel suo complesso ha fatto danni. Col rischio di scardinare le regole elementari di questo mestiere. Arrivando ad abituarci alla cancellazione dei fatti.
Imponendo un modello di giornalismo servile nei confronti del potere, genuflesso e subordinato. E non suo controllore.
Diffondendo falsi allarmi. Modelli virtuali ma non virtuosi. Sostituendo il reality al reale. Nascondendo le periferie, le sofferenze. Le ingiustizie e le conseguenze della crisi sulla vita vera dei cittadini.
Riportiamo gli orologi a venti anni fa: prima repubblica, prima dell’ingresso in politica di b.
Durante la fase di tangentopoli, quando la magistratura mise il dito nella piaga della corruzione sistemica della politica, l’informazione c’era. Era attiva, presente. Sveglia. Raccontava i fatti. Raccontava anche i fatti di mafia, gli intrecci tra boss e politica. Non si può dire fosse un’informazione del tutto libera e indipendente, ma raccontava i fatti.
Da allora in poi è scattata una specie di marcia indietro che ci ha sprofondato al 51esimo posto nella classifiche mondiali sulla libertà di informazione. Giorno per giorno, mese per mese. Censure omissioni manipolazioni e silenzi. Distorsioni della realtà. Applausi falsi e contestazioni cancellate. Ci hanno fatto abituare all’ informazione annacquata e taroccata, al tiggi minzoliniano, alle meteorine di Fede. Al fotoshop. Senza che questo provocasse una reazione un’ indignazione un rigetto.
Cose che ora, in questa fase che tende all’ amnesia; in questo ciclo politico in cui il sipario non cala e nessuno chiede il conto, rischiamo di dimenticare. Di tralasciare. Di trascurare.
Dimentichiamo cosa è successo al sistema televisivo, con una rai piegata ai voleri del re, che spesso ha perso il suo mandato di servizio pubblico.
Dimentichiamo per esempio che in questi anni l’inchiesta televisiva -il racconto della realtà, dei fatti, attraverso le immagini- è diventata quasi un genere proibito o assai raro: un panda allo zoo di berlino.
Sostituita da una massa di talk show sempre più uguali a se stessi, parolifìci del bla bla con la stessa giostra girevole di ospiti, nani e ballerine. Con la stessa riverenza nei confronti del “capo”.
Dimentichiamo che i giornalisti che hanno avuto non dico il coraggio, ma la naturale inclinazione a raccontare i fatti, a guardare la polvere sotto il tappeto, a curiosare nel retrobottega dei palazzi, non sono stati motivati ad andare avanti. Tutt’altro: penalizzati nella loro carriera, spesso messi a tacere.
Dimentichiamo che anche la figura del “giornalista reggimicrofono” (parente del “giornalista postino”) pare ormai desueta. Sostituita dal “microfono senza giornalista” tout court.
Troupe di operatori che girano senza cronista, che chiedono al politico di turno “faccia una battuta” e quello la fa. Risposte senza domande che si riversano sui teleschermi. Monologhi in libertà. Dichiarazioni a piacimento.
Senza parlare dei fatti, occultati, nascosti, taciuti: se raccontavi dello scempio lasciato dalle opere incompiute della cricca del G8 alla Maddalena, in Sardegna, rischiavi di venire accusato di essere “antiitaliano”.
Ho trovato tra le mie cose un notes del 1997: una delle prime udienze del processo Dell’ Utri a Palermo, in cui emergeva il ruolo del mafioso Mangano ad Arcore. Nel notes, in cui avevo appuntato tutta l’udienza, a fine pagina avevo scritto: non vogliono il pezzo. “chissene frega di questo mangano”. Ecco, così è andata. Pensate a quanti fatti i cittadini non hanno saputo.
I fatti per cui oggi Berlusconi viene condannato in cassazione -terzo grado di giudizio- (la frode fiscale per montagne di milioni), sono noti da quel dì.
Ma la grande informazione non è stata messa in condizione di raccontarli come avrebbe dovuto. Se non per alcune eccezioni, pochi giornalisti che sulla materia si sono specializzati. E ne hanno fatto il loro punto di forza.
Ma nei media dei grandi numeri il messaggio non doveva passare e non è passato.
E vogliamo aprire il capitolo “femminile”? La donna raccontata come corpo, soggetto da barzelletta, faccino da mettere sullo schermo, velina meteorina e miss. Tette culi e bocche rifatte. Se sei bella e la dai farai carriera. Anche tra le giornaliste. Non crediate…
Mi viene in mente la scena delle carriole dell’ Aquila, uno dei tanti eventi del ventennio che le televisioni non hanno voluto/ potuto raccontare. Nella sua emblematicità. Nella sua forza prorompente del disubbidire per ricostruire. Nella sua metafora.
Febbraio 2010. I cittadini dell’ Aquila terremotata, dopo mesi di inazione da parte del governo, infrangono il divieto della zona rossa e vanno di persona, con vanghe e carriole, a liberare il centro storico dalle macerie. Le raccolgono con cura, le selezionano a seconda del tipo di materiale, le caricano sulle carriole e si riappropriano dello spazio della loro città.
Ecco. Italia 2013. Un po’ come dopo un terremoto. Penso che per i giornalisti che abbiano a cuore quell’articolo 21, il principio di essere al servizio dei cittadini e non del potere, sia arrivato il momento di prendere le carriole, rimboccarsi le maniche, imbracciare la vanga e cominciare a ripulire le macerie.
Iniziando per esempio dal ripristinare il valore della parole, ridare alle cose il loro nome.
Come? Per tornare a Berlusconi e alla sua storia. Lo si continua a chiamare cavaliere. Ma, cavaliere di che? Lo si continua a chiamare presidente. Mia figlia mi ha chiesto: “a mà, ma presidente de’ che?”
Fior di inviati e editorialisti dicono “l’ex premier”. Che fa tanto sobrio.
Allora. Cominciamo dalle parole. Se ci serve un sinonimo per “berlusconi”, si può sempre dire pregiudicato; condannato; colpevole di frode fiscale. Per esempio. Senza per questo essere “faziosi”. Senza che questo suoni male.
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