In un incontro a Radio Città Futura con la professoressa Sofia Ventura, ordinaria di scienza politica a Bologna, sono stato costretto a richiamare ancora una volta il consunto pamphlet di Julien Benda negli anni Trenta, sul silenzio o disimpegno o equidistanza di troppi intellettuali di fronte al fascismo trionfante. Berlusconi non è il nuovo fascismo, tanto meno trionfante, ma ha inferto colpi mortali al sentimento della democrazia e della legge in un paese già di suo abbastanza fascista e mafioso e grigio, nonostante la luce. Perciò, dire come ha detto la Ventura, autrice anche di articoli per giornali di centrosinstra quando si tentava di ampliarne gli stimoli culturali, dire che il Pd è responsabile come il Pdl della crisi istituzionale e del disimpegno civico di tanti, perché al partito personale del padrone contrappone il partito feudalizzato dei cacicchi (espressioni miei, concetti suoi), mi è parso intollerabile. E’ la malavoglia di chi proviene da culture autoritarie nell’ assimilare il cardine metodologico della democrazia: il dibattito, la dialettica, la ricerca dell’unità solo attraverso il confronto delle diversità. Sarà pure una “perdita di tempo”, ma è quel tempo che madre natura chiede a tutte le cose che debbono nascere vive, da semi sani (a differenza delle larghe intese, parto d’emergenza).
Qui abbiamo una destra che perde non il suo tempo ma quello del Paese (rischiando perfino la legge di stabilità tra 15 giorni, cioè la carta di credito dello stato verso i suoi cittadini e i suoi interlocutori stranieri); e lo fa con la teatralizzazione di un fatto grave e doloroso del suo leader e padrone, ma personale e irreversibile: perché le leggi non possono essere, come sferzava Giolitti, applicate al nemico e interpretate per l’amico. Berlusconi non è né l’amico né il nemico, ma, per una volta, cittadino qualunque, come tutti noi. Le leggi si possono riformare, non distorcere, come vorrebbero quei mediocri costituzionalisti che hanno fatto ricorso in Europa contro la “Severino”, e che restano sempre la terza fila della cultura giuridica, anche se coronati dell’alloro di “saggi”. Per fortuna sono anche pochi, e la manifestazione dell’8 ottobre in difesa della Costituzione forse ne offrirà la prova. Insomma, chi pensa che il Quirinale, il Parlamento, la magistratura, le autorità di garanzia, i partiti democratici pluralisti siano a rischio, nella tempesta scatenata dal dio offeso, sappia che, come dopo la guerra, la vera cultura presidia le istituzioni, come quel po’ di capitalismo europeo che c’è in Italia, come (e perfino) quella stampa che comincia a sentire odor di bruciato, di 1922, e rinuncia al cerchiobottismo.
E’ appena uscito dal Mulino un bel libro di Antonio Costa Il cinema italiano sulla storia della decima musa, storia che ha ormai 110 anni: analizza fra l’altro la “responsabilità che il mondo della cultura ebbe nel favorire gli sviluppi del fascismo”, diffondendo il nuovo senso comune, che non è assolutamente sinonimo di buonsenso. Fin dal 1923, “Il grido dell’aquila” di Mario Volpe tocca temi che saranno poi sviluppati dai Blasetti, dai Forzano, dai Trenker. E’ vero che, quando le società sono nella morsa delle culture conservatrici, come era quell’Italia e, in parte, anche questa di oggi, chi vuol rompere l’anello deve spezzarlo per uscirne. Ma che si debba sempre uscirne in direzione dell’Uomo della Provvidenza, è il marchio di un provincialismo restio a correggersi , a correggere la democrazia con più democrazia, senza evasioni tra il burlesque e Maciste.