E’ vero, ce n’è più bisogno di allora. Io che il gruppo l’ho fondato con altri amici primo fra tutti Beppe Giulietti, devo confermare con grande tristezza che la professione giornalistica ha bisogno non di un ripensamento, ma di una trasformazione ben più profonda di quella che riuscimmo ad avviare nel lontanissimo 1985 a Fiesole. Oggi l’emergenza è totale e i giovani che si avviano a questo mestiere non riescono neppure ad orientarsi, schiacciati da filmati imposti come se fosse ordinaria amministrazione, e trovarsi essere obbligati (da chi non è mai chiaro) a mandarli in onda, scavalcati dai protagonisti della rete che hanno la possibilità di far invecchiare le notizie nel giro di un minuto, soverchiati da ministri e presidenti che non affrontano più le sale stampa ma “cinguettano” quello che gli fa comodo far sapere perfino durante le riunioni di consiglio dei ministri. Quale futuro per questo giornalismo? Ma forse la domanda è mal posta…c’è un futuro? Domandiamocelo per primi noi “diversamente giovani” per spalleggiare davvero le nuove generazioni, per rendere liberi loro che arrivano alla professione nel momento in cui la deregulation del web ci fa illudere di avere finalmente conquistato il diritto a comunicare e ad essere informati mentre invece sta accadendo esattamente l’opposto. Questo meraviglioso mestiere avrà ancora un futuro altrettanto meraviglioso solo se saprà usare la rete per informare e non per essere presente come un rito salvifico sui social networs. Questo mestiere deve tornare a fare inchieste e documentari da declinare poi in formati diversi sul web, sui telefonini, sui tablets, e nei telegiornali tradizionali, ignorando – mi si passi l’eccesso – il quasi sempre più insopportabile rito dei talk show.
E chi lo deve fare per primo e al massimo livello? Ovviamente il servizio pubblico, cioè la Rai.
Facciamola presto questa riflessione, scambiamoci idee – in questo la rete serve – scriviamo un piano di azione e rendiamolo pubblico, diffondiamolo nelle redazioni. Ripartiamo da noi. Senza preclusioni verso nessuno, liberandoci delle tifoserie, riportando al centro il nostro autentico interlocutore: l’utente, il lettore. Quello che va in edicola e paga il giornale e una volta all’anno paga il canone Rai (quel 70% che lo paga, intendo). Non ci servono altri editori di riferimento, sono loro. Non ci servono potentati o salotti, banche o società finanziare. Dopo Fiesole partimmo con un convegno profetico sull’insider trading in quegli anni ’80 rampanti e velleitari che pure spesso oggi rimpiangiamo non comprendendo che il disastro di oggi comincia lì. Cominciava là dove le regole non contavano più, dove si azzeravano i provvedimenti dei pretori con i decreti Berlusconi (citazioni dell’epoca) e le leggi erano ritenuti degli inutili lacci e laccioli.
Tornare alla legalità, e alla moralità della professione. Al racconto in presa diretta di quello che il paese è, dalla fotografia di dove avvengono i fatti: ma che giornalismo è se io cerco un ospite e lo prego soltanto di venire in uno studio a Saxa Rubra per fargli una “intervistina” sprovvista di immagini girate e perfino di immagini di repertorio? Se questo è il nuovo modo di concepire la professione, allora noi dobbiamo solo essere felici di aver vissuto un’altra stagione e non abbiamo strumenti per invertire la rotta. Ma poichè per la stragrande maggioranza dei colleghi non è così, allora ragioniamo, vediamoci e facciamo in fretta.
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