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L’arte cambia le persone e le persone cambiano il mondo: la resistenza dei giovani palestinesi del Freedom Theatre

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In Palestina c’è una generazione di giovani che vorrebbe vivere una dimensione esistenziale normale, propria della loro età e delle loro aspirazioni, stroncate sul nascere da un’occupazione militare israeliana che lascia poco margine di manovra ai percorsi di realizzazione personali. L’occupazione è una condizione esistenziale, la resistenza è un comandamento. Tuttavia, molto spesso la resistenza si riduce a vana forza della disperazione, in un contesto segnato da iniquità e soprusi . Nessuno al mondo vorrebbe tirare pietre raccolte tra le macerie delle proprie case e città demolite, nessuno vorrebbe abbandonare le case che aveva per andare a vivere all’interno di campi profughi. Il gesto di tirar pietre è un gesto di stizza impotente e vano per l’appunto, è come inveire contro il borseggiatore che corre via con la borsa dopo averla strappata da dosso. E’ un rigurgito di dignità. Tuttavia, anche non avendo una portata realmente pericolosa per l’occupante, il lanciatore di pietre, il resistente, sarà perseguibile con il fermo e l’arresto, anche in età minore. Ecco allora che il cammino verso l’età adulta e un sano percorso di formazione individuale, in una dimensione serena e normale, per quanto possibile, rischia di essere compromesso e deviato da esperienze di odio. Il punto è creare un terreno fertile per percorsi di crescita condivisi, che facciano da trampolino di lancio a una vita reale, fatta di promesse e aspettative, creare prospettive di resistenza differenti che non si esauriscano nella forza della disperazione.

La necessità profonda di dare una risposta alla esigenza legittima di tanti giovani palestinesi di trovare un senso al caos desolante dei meccanismi che agiscono nei territori occupati o in un campo profughi è stata raccolta anni fa da Juliano Mer-Khamis. Juliano, che si professa al 100% israeliano e al 100% palestinese, diede vita nel 2006 all’esperienza del Freedom Theatre proprio nel campo profughi di Jenin.  Pagherà, pochi anni più tardi, con la stessa vita, l’irriverenza rivoluzionaria della sua attività. Sarà colpito a morte difronte al suo teatro. Quando parlava di questa sua creatura la presentava come “la nostra lotta contro l’occupazione israeliana ed ogni forma di oppressione. L’arte è la nostra Intifada, la cultura e la miglior forma di resistenza”. Il Freedom Theatre ha raggiunto nella sua breve, ma tormentata, esistenza due obiettivi inestimabili: togliere tanti giovanissimi palestinesi dalla strada, fatta di prepotenze e prevaricazione, creando allo stesso tempo una resistenza non violenta, molto più pericolosa e meno disperata di quella scandita dalle pietre. I ragazzi, nel teatro, hanno trovato una maniera di espandere la proprie anime, di costruirsi un’identità, un’identità vera, fondata sulla cultura e l’arte, svincolata dall’essere il mero prodotto di una condizione degradante. Il teatro, ha, allo stesso tempo, un ottimo influsso, grazie all’attività svolta, su tutto l’ambiente del campo profughi di Jenin dove opera, oltre a dare la possibilità di parlare al mondo, tramite l’arte, di ciò che le pietre da sole non possono spiegare.

Questo Juliano lo sapeva e sembra esserne consapevole, ormai, anche Israele che vede in questa nuova forma di resistenza, che prescinde dalla debolezza dell’impotenza, il pericolo di spostare il confronto su un campo differente. L’arte destabilizza l’equilibrio delle forze in campo, minando gli ormai collaudati meccanismi per il controllo dei territori e delle persone che li abitano. Creare coscienze con una consapevolezza differente. L’attuale direttore artistico del Freedom Theatre, Nabil Al Rae, è stato arrestato senza alcuna accusa ufficiale. La sua unica responsabilità civile sembrerebbe proprio legata all’attività teatrale che porta avanti, un percorso sovversivo pericolosamente nuovo per Israele.

Nelle scorse settimane la compagnia è stata in Italia, dove ha partecipato al Festival Cuore di Palestina a Bologna e ad una presentazione presso la sede della Delegazione Generale Palestinese a Roma. Bisogna riportare le parole dei ragazzi del Freedom Theatre per capire quale sia il ruolo dell’arte e come si amalgami con la quotidianità del campo profughi di Jenin. Come sia resistenza differente, animata e carica di speranza, in un luogo dove per lungo tempo si è fatto leva solo sulla disperazione. Nabil, il direttore artistico, è intervenuto a Roma spiegando come il Teatro della Libertà “non forma semplicemente attori, ma attori all’interno di un movimento con valenza artistica, politica e sociale che aspira ad elevarsi e a dire no a varie forme di occupazione presenti nella vita dei palestinesi e non solo”.

Quel sentirsi condannati a non vivere trova un canale di sbocco contro la violenza e l’autodistruzione. Uno degli studenti ricorda che era un ragazzaccio fino al momento in cui è entrato a far parte del teatro. Per lui il campo profughi era un dato di fatto, una realtà fatta di lotta e ingiustizia. Non riusciva però a trovarne le cause. Soprusi, pietre, botte, arresti. Automatismi da occupazione, a cui è difficile sfuggire. Poi ha conosciuto la cultura, che lo ha liberato, dandogli uno sguardo nuovo sulla realtà, per elaborarla e padroneggiarla. Ha superato la paura insita nel caos. “Ho scoperto forze e capacità che neanche credevo di avere. L’arte cambia la gente e la gente cambia il mondo”.

Hadi, uno dei ragazzi, ammette: “puntiamo sulla cultura come forma di lotta per un cambiamento sociale e un’emancipazione nei confronti dell’occupazione e dell’oscurantismo dell’occupazione”. Quando le loro teste rischiano di venire colonizzate dall’odio, il teatro diviene il processo fotosintetico che lo impedisce, e trasforma la loro rabbia e il loro disagio in spunto creativo. Ahmad torna con la memoria al 2002, all’operazione militare israeliana nel campo, durante la quale la sua casa è stata distrutta. Aveva 14 anni e lanciava pietre con altri bambini. “Fui preso, ferito e mi dovettero levare qualcosa dallo stomaco. Da quel giorno in me non c’era spazio per altro che non fosse vendetta. Poi nel 2006 entrai nel Freedom Theatre e capii: anche se Israele non ci avrebbe lanciato fiori, noi avremmo comunque risposto lanciando arte, che è molto più efficace delle pietre. Il destino dell’arte è lottare in eterno, adattarsi, prendere le forme della battaglia, essere immortale”.

Cristin ripercorre il suo cambiamento personale. Essere una ragazza in Palestina vuol dire sostenere una situazione in cui è impossibile vivere. Anche una cosa banale come una passeggiata di sera risulta impensabile sotto occupazione. E’ una questione di libertà personali, di vivere i sogni della propria età. Il teatro le ha fatto trovare il coraggio necessario per vivere. Ahmad chiude l’intervento, confessando alla platea di non aver mai visto il mare: buchi imposti alla sua esistenza. “A 12 anni realizzai, guardandomi intorno, di essere nato per morire, da quel giorno la paura mi accompagna. La sensazione è quella di non aver futuro, ma quando sono tra i miei compagni di avventura del Freedom Theatre trovo una ragione di vita”.

Il teatro ritrova, a Jenin e con questi ragazzi, la sua natura: è pietra comunicativa, è tunnel per scappare all’assedio, un paio d’ali per elevarsi al di sopra dei muri irti come lapidi di libertà e speranza. I ragazzi grazie a questa esperienza si sono allontanati dalla propria realtà catalizzatrice di odio, generatrice di vuoti esistenziali e di frustrazione impotente, e hanno, finalmente, avuto la possibilità di vivere sul serio invece che sopravvivere. Con il teatro questi vuoti traboccano di vita. Ecco i nuovi campi di addestramento dei fedayn palestinesi. L’Intifada va in scena.


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