Carissimo Padre Paolo, sj, l’estate di norma uno ha cose migliori da fare che sognare di parlare con un monaco. Tu non avevi desiderio più grande e totale di andare a incontrare i siriani, a Gazantiep, e ritrovare “una signora di Damasco che conoscevo quando era ragazzina. Per vent’anni non potettero sapere se il padre medico era vivo o morto nelle prigioni degli Assad. E’ in esilio e lavora per i profughi con suo figlio.” Tu sei così, io invece preferivo le ferie. Ora però non vedo l’ora di poterti chiamare di nuovo, come quella volta che ti ho raggiunto in Iraq e tu stavi guardando “questa montagna stupenda, con i suoi colori inebrianti.” La parola non ti difetta come a me, l’avrai descritta molto meglio di così quella montagna del kurdistan iracheno, ma io lo ricordo così l’inizio di quel breve racconto.
Quando ti richiamerò, Paolo, lo farò come al solito non per rubarti segreti, ma indicazioni utili per seguitare a credere nell’uomo, fede che voi figli d’Abramo non sempre sapete dispensare in modo convincente, mentre tu hai anche le chiavi per rinvigorire la fede nell’uomo anche nei deboli, come me.
L’ultima volta che ti ho voluto scocciare in questo mese di luglio non l’ho fatto per chiederti del Ramadan, che tu volevi mese di preghiera e incontro tra sunniti e sciiti. Tu mi hai spiegato quello che non avevo capito, che nel Ramadan il debole singolo trova negli altri, nel collettivo, nell’unione, la forza necessaria per arrivare al tramonto. Ti ho ascoltato, ma volevo chiederti della depressione, e tu, così lontano, hai inteso il senso di quella domanda, dicendomi che ” la depressione è solidarietà, è empatia universale, è sofferenza divina .”
Lo so che tu non ti deprimi, ma soffri le doglie del parto davanti a quel che accade, allo strazio siriano, di quel popolo colpevole di aver chiesto la libertà. Tu sei un uomo che vive quotidianamente nel Vangelo, nella sua radicalità, e avverti il bisogno di testimoniare che almeno tu non li hai traditi. Non lo farai mai. E allora tra pochi giorni, quando ti chiamerò, ti chiederò dei colori di questa Raqqa dove ti trovi, che non ho mai visto. A me di questi signori con i quali ti trovi, parlando di certo di quanto aiutino il regime che ti ha cacciato di lì, interessa assai meno di te. Il dialogo che cercavi con tutti tranne l’aguzzino, il nemico della dignità del suo popolo e l’amico di tutte le mafie, è il motivo che ti avrà portato lì, dai tuoi “fratelli di Raqqa”. Me ne parlerai certamente, ma io ti chiederò dei colori, per sapere se la guerra, il sangue, il pianto, il dolore, la rabbia, l’offesa, li abbia cambiati, li abbia snaturati. E’ così forte l’odio da snaturare anche la natura? Questo devo chiederti con una certa urgenza…
Sbrigati Paolo, il Ramadan sta per finire e tu non riuscirai a portare la fede nell’uomo nei cuori di tutti prima dell’8 agosto, pazienza. Massignon ti accompagna di certo in questi colloqui complessi che stai avendo, lo so, e insieme cercherete l’ospitalità di Abramo nei cuori di tutti i suoi credenti. Perché il dialogo non serve a convincere l’altro, ma a capire meglio se stessi. Però, Paolo, è inutile sperare che lo capiscano tutti di qui all’8 agosto. E’ come al solito geniale l’idea di esserci andato, di dirlo anche a loro, ma il seme fecondo che hai gettato germoglierà nel tempo, adesso è il caso di pensare anche agli iracheni. Ne muoiono a pacchi anche lì, ogni giorno, e visto che ascolti tutti, anche me, vorrei chiederti che prima dell’8 di agosto ti convincessi a fare un salto anche da loro, per ridare anche a loro una parola di “Ramadan e dialogo” prima che ritorni l’estate normale.
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