Si è appena conclusa, a Spoleto,la 56° edizione del Festival dei Due Mondi, diretto da Giorgio Ferrara che ha raccolto il (prestigioso)testimone del maestro Giancarlo Menotti – fondatore e animatore della keemesse sino alla sua (quasi centenaria) scomparsa. Musica, operistica, danza, teatro- tutti di rinomato, palpabile lignaggio – sono stati il nerbo di un programma selezionato in collaborazione con la Fondazione Fendi –secondo una collaudata, aristocratica sinergia di capitale pubblico (pochissimo) e di mecenatismo privato (ma nulla, credo, che si faccia per nulla)
Plurielegante, plurisemantico ,pluri ‘à la page’, ad esempio, il ritorno (comunque elogiabile) di Alessandra Ferri, al suo debutto da coreografa (Teatro Nuovo), attraverso “un progetto umorale e intimista intitolato “ The Piano Upstairs” su copione originale di John Weidman , ove la danza e la prosa si incontrano in una sorta di gioco delle (e fra) le parti, tendente (more solito) al massacro. Cioè inscenando la fine di un amor coniugale decantato dalla voce e dal corpo di un uomo e una donna, interpretati con bizzarrie bilingue dall’attore statunitense Boyd Gaines (rigorosamente in smoking e traduzione simultanea) e dalla stessa Ferri (in esile tutina nera, da ballerina qual è)- con debito cenno alla sua autobiografia di donna ‘spezzata e ritrovata’ cui personalmente non possiamo che offrire rispetto. E poi, se ‘noblesse oblige’ e la classe non è acqua, ecco la sfilza dei collaboratori allo spettacolo, su scene allestite dal premio Oscar Gianni Quaranta, musiche a cura di Giovanni Allevi, John Cage e Fabrizio Ferri, regia (felpata, quasi inavvertita) dello stesso Ferrara, a privilegio di uno ‘stereotipo’ di sentimenti e burrasca dove –fattasi una ragione dello smacco subito- lo spazio della rabbia lascia pietrificata foresta a quello dello svuotamento (contagioso per chi assiste impotente, da mero spettatore)
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Ci si rinfranca con l’arrivo della danza ‘pura e adamantina’, senza rischio di contaminazioni , oggetto di culto al Teatro Romano nelle esibizioni di Benjamin Millepied, prossimo direttore del corpo di ballo dell’Operà di Parigi, in scena con le coreografie del “L.A. Dance Project”, e della compagnia americana Mark Morris Dance Group. Essendo poi la “Trilogie des iles” il piatto forte di una struttura fantasiosa e multimediale in cui Irina Brook (facendo perno sui temi della libertà e del perdono, categorie assolute per meglio placare le umane passioni) pone in essere il secondo capitolo di una ideale triade creativa palesemente ispirata all’esoterico regno di Prospero e della sua enigmatica (pliisemantica) “Tempesta” shakespaeriana
Ispirandosi alla quale, lo spettacolo ‘parla’ più lingue ed accenni di dialetti diversi dal purismo anglofono (napoletano, calabro –lucano) )con una prevalenza del francese, dell’argot, dell’italiano basico, per una divertente babele di sketch e briciole di magia, tali da conferire allo spettacolo il gusto di una ‘estiva festosità’, molto contigua allo spirito circense ed alla ‘sdrammatizzata’ rivisitazione di sentimenti come quello della perdita, dell’abbandono, dell’ oblio di se stessi che trovano nella sequenza del naufragio il momento di più alto e ‘liberatorio’simbolismo
Sinchè il tema della vendetta (della rivalsa più astiosa), filo che lega il tiranno Prospero al mondo da cui si è auto-esiliato, sembra infine dissolversi in una sorta di benevolenza ‘urbi et orbi’, in una riconquista dell’autocoscienza (sempre attraverso ‘acrobazie’ e pantomime circensi) lasciando spazio a quella libertà bramata e sostanzialmente acciuffata da tutti gli abitanti (reali e virtuali) dell’isola misteriosa donde anche Verne ne trasse ispirazione) Liddove Calibano, mostriciattolo innocuo, domestico, persino scaramantico, abbandona l’idea di uccidere il dispotico Prospero, scegliendo di restargli al fianco con l’incarico di cuoco provetto. Smaglianti l’allestimento e la location che l’abside dell’ex chiesa di San Simone accoglie e coinvolge all’interno di una storia mitica e mitologia, nelle loro accezioni più turgide, fantasiose.
E se la prosa è apparsa dominata da toni della classicità ‘rivisitata’, tra i titoli di lirica e operistica sembra primeggiare il gusto della favola in forma di commedia: con le “Storie di Hoffmann” narrate in Croquefer & Tulipatan con Les Brigands e il “Matrimonio segreto” di Cimarosa (che nel 1792 mandò in estasi l’imperatore Leopoldo, mecenate che piacerebbe ancora alla gente di bon ton), riproposto dall’Orchestra del Petruzzelli di Bari, diretta da Ivor Bolton, con la regia di Quirino Conti e i costumi di Piero Tosi: ineccepibili nel tributare all’allestimento il gusto del ‘trompe l’oeil’ e del preziosismo, in una sorta di esaltazione imbellettata, cicisbea di ciò che è ‘ridiculoso’, minimale, teneramente desueto. Come cerimonia al lume di candela, per pochi intimi d’un qualche lignaggio, neanche fossimo sul set di “Barry Lindon”.