La storia dell’ imprenditore calabrese Nino De Masi che (nella foto), dopo sette anni di sentenze della magistratura che gli davano ragione a proposito della richiesta allo Stato di un prestito antiusura previsto dalle leggi vigenti, ha dovuto arrendersi di fronte allo Stato inadempiente, e ha smantellato due dei cinque comparti industriali di edilizia e di componentistica per trattori agricoli mandando a casa cento operai che lavoravano per lui, è un caso esemplare di quella che io ho chiamato nel mio ultimo libro “la mafia come metodo”.
In effetti, secondo la legge in vigore, De Masi avrebbe dovuto ricevere già nel 2006 (alla sua prima richiesta) il prestito anti-usura richiesto per le minacce che la ‘ndrangheta gli ha più volte rivolto a Rosarno e i gravi danni che ne sono derivati. Per non parlare dei tassi di interesse, superiori al dieci per cento, che i cinque maggiori istituti bancari di Roma e del Nord applicano contro le imprese meridionali e su cui l’imprenditore ha avuto platonica ragione anche dalla magistratura.
Vorrei che i lettori si rendessero conto appieno della gravità del caso. De Masi è leader del suo settore in Italia, oltre ad essere tra i primi tre esportatori in altri paesi mediterranei come Spagna, Portogallo e Grecia, e ha da poco aperto punti di vendita in mercati importanti come l’Australia, il Messico e Israele. E la sua resa avrà sicuramente ripercussioni in una regione come la Calabria che ha record negativi nell’occupazione non soltanto giovanile e versa in una crisi economica maggiore delle altre regioni meridionali.
Ma De Masi ha sperimentato tutti i sistemi praticabili per evitare l’esito negativo della chiusura e del fallimento, senza riuscire a farcela. “Per aspettare i tempi della giustizia – spiega al giornalista interessato (rara avis in un mondo dei media che non mostra interesse per casi come questi) – ho fatto i salti mortali, ho elemosinato da amici e dalla Chiesa, ho venduto mobili, effetti personali e l’automobile di proprietà e ho dovuto dare anche i miei trattori e le mie macchine al ribasso per pagare i ratei dei prestiti ottenuti dalle banche in attesa dello Stato che non è mai arrivato.”
De Masi ha aggiunto di aver avuto contro il commissario regionale antiracket, di aver perso sei milioni con le banche creditrici e di aver dovuto mancare obbiettivi che, prima dei danni subiti dalla mafia, aveva sempre conseguito con puntualità.
In questo senso, l’imprenditore calabrese è stato costretto ad arrivare all’amara conclusione che ho dato come titolo a questa nota: se la ditta De Masi chiude la sua attività, la principale colpa l’ha avuta lo Stato che non applica leggi ancor di più della ‘ndrangheta che perseguita i calabresi. Si tratta in ogni caso di un concorso di colpa che non è degno di uno Stato moderno come quello di cui tutti siamo cittadini.