In Egitto Mohamed Morsi, espressione del Partito Libertà e Giustizia, organo politico dei Fratelli Musulmani, è stato da poche ore rimosso dalla carica di presidente da un colpo di Stato messo in atto dal generale Abdel Fattah al-Sisi, comandante in capo delle Forze armate egiziane, e sottoposto a misure restrittive della libertà, a poco più di un anno dalla sua elezione, nel 2012.
Dopo lunga, distratta e colpevole sottovalutazione, i nostri giornali hanno deciso di occuparsene: ”Morsi deposto, l’esercito al potere”, Repubblica. “L’esercito prende il comando”, Corriere. “Golpe in Egitto”, La Stampa. “Ma un golpe bianco – scrive Bernardo Valli su Repubblica – l’obiettivo non sembra la presa del potere, ma costringere i litigiosi avversari al raggiungimento di un compromesso”. “Un golpe popolare – lo definisce Antonio Ferrari sul Corriere – auspicato dalla maggioranza del più grande paese arabo, che sperava di aver ritrovato, con la primavera delle piramidi, la strada della libertà”.
Insomma, un tripudio per la fine di un governo ritenuto repressivo… ma siamo sicuri che ciò che aspetta l’Egitto sia meglio?
Chiamiamo le cose con il loro nome. La primavera è stato l’inizio di una rivoluzione. Ha spezzato il vincolo che legava ceti popolari e borghesi, tendenzialmente islamici, a regimi che giustificavano la loro tirannide, corruzione e incapacità con l’esigenza di far fronte comune contro Occidente e Israele. Dopo la “primavera”, borghesie e ceti popolari hanno invece trovato il loro nemico interno. Lo hanno trovato proprio nel regime, con il suo seguito di ultra – privilegiati, speculatori, corrotti e corruttori, super ricchi che caduto Morsi resteranno ben avvinghiati al potere.
Lotta di classe, rivoluzione, incompiuta. Dunque. Senza un vero soggetto rivoluzionario e con mille volti e mille istanze diverse.
Piazza Tahrir non ha i suoi soviet che le permettano di governare l’Egitto, di avviare la transizione verso un nuovo potere, democratico, liberale e popolare. Ecco che ci si affida ai poteri in campo. I fratelli musulmani, antichi oppositori del regime e forti della loro identità religiosa e dell’assistenza, che si garantisce nelle Moschee ai bisognosi, non potevano non vincere le prime elezioni. Hanno conquistato il potere e lo hanno usato malissimo. La benzina non c’è e costa troppo. I turisti snobbano le Piramidi. La libertà, appena assaporata, è stata subito irregimentata dalle barbe e dalle paranoie dell’islamismo paternalista. Si sono bruciati in un solo anno. Cacciati da una marea di donne e di uomini, di giovani in particolare, arrivata al Cairo da tutto l’Egitto. E l’esercito, che un anno fa si era liberato dei personaggi più imbarazzanti, perché coinvolti con gli intrighi e le tangenti di Mubarak, si è schierato con la rivolta. O lo faceva, o avrebbe dovuto rendersi responsabile di un bagno di sangue.
Hanno vinto i ragazzi di piazza Tahrir? Illusorio pensarlo. Siamo al cospetto di un’altra tappa e sono possibili, forse probabili, nuove delusioni. Ma una rivoluzione non si piega facilmente. Nemmeno se chi all’estero dovrebbe sostenerla si limita a poche frasi di circostanza.