Crisi della legalità, crisi della democrazia

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È responsabilità di una buona parte della classe politica non aver compreso in tempo la pericolosità insita nel fatto che una persona sola sommasse in sé il potere politico e quello mediatico, aumentando il rischio di accentramento indicato già da Montesquieu tre secoli fa. Già magistrato, Almerighi presiede l’associazione «Sandro Pertini Presidente» e ha recentemente pubblicato «Mistero di Stato» (Aliberti editore) e «Criminalità senza confini» (Aracne editrice).

Montesquieu aveva teorizzato un sistema democratico fondato sulla separazione di tre poteri dello Stato (legislativo, esecutivo e giudiziario) con anche funzioni di controllo reciproco. Egli sosteneva che «la separazione funzionale dei poteri diminuisce il rischio che si affermi una dittatura o un regime totalitario». Oggi, i poteri non sono più soltanto tre. La stampa e la televisione sono ormai considerati come quarto potere. Sappiamo bene che il potere politico si basa sull’entità di consenso elettorale che riesce a conseguire presso il popolo. Sappiamo anche che il consenso elettorale è ormai in gran parte fondato sull’immagine e sull’utilizzo dei metodi suggeriti dalla scienza della comunicazione. Nel nostro paese qualcuno ha capito tutto ciò circa venti anni fa. Chi non lo ha capito o ha fatto finta di non capirlo ha consentito a questo qualcuno di assorbire e mischiare il quarto potere con due degli altri poteri tradizionali dello Stato con la conseguenza di aumentare vertiginosamente il rischio sul quale Montesquieu aveva messo in guardia. Questo evidente conflitto d’interessi ha fatto sì che si traducesse in una profonda lacerazione della funzione rappresentativa propria di una democrazia avanzata. Una lacerazione ormai trasformata in profonda e sanguinante ferita a causa del dilagante fenomeno della corruzione che ha trascinato l’Italia sempre più in basso nella classifica predisposta da Transparency international: negli ultimi vent’anni dal 25° al 73° posto nella classifica mondiale. Ultimi in Europa e con un indice di corruzione più alto rispetto a quello di Quebec, Taiwan, Arabia Saudita, Botswana, Turchia, Slovenia, Qatar ed Estonia. Tutto ciò in un paese dove il profitto della criminalità organizzata è pari a circa 100 miliardi di euro all’anno, l’evasione fiscale è pari a circa 160 miliardi e la corruzione ha un giro di circa 60 miliardi. Nel sito di Transparency international si legge: «Dove c’è corruzione viene investito meno nell’educazione e nella scuola che permette alle nuove generazioni un futuro migliore, condannandole alla miseria». È esattamente ciò che è accaduto nel nostro paese. L’Italia ha sottoscritto la Convenzione europea contro la corruzione nel 1999. Ancora oggi non è stata emanata la corrispondente legge interna. Quella recente del governo Monti è una presa in giro e ancora siamo in attesa di una legge sul vergognoso e ormai incancrenito conflitto di interessi. In compenso abbiamo assistito ad una intensa produzione legislativa a tutela di interessi personali, che ha portato acqua ad una più estesa diffusione di illegalità. Solo un esempio: nello stesso periodo in cui negli Stati Uniti la pena per il reato del falso in bilancio veniva aumentata sino a 20 anni di carcere, in Italia lo stesso reato veniva di fatto abrogato. In sostanza, anziché affrontare i drammatici e reali problemi del paese, si è dato spazio ad uno strumentale scontro con la magistratura, come se il problema prioritario fosse non legato ad un rafforzamento delle strutture dello Stato dedite all’affermazione della legalità ma esattamente il contrario.

Uno scontro con la classe politica che ha avuto come protagonisti non l’intera magistratura, bensì quei magistrati che avevano arrecato disturbo agli interessi di qualche politico o, peggio ancora, che avevano evidenziato metastasi del sistema riferibili alla dipendenza e all’asservimento della politica ai poteri forti economico-finanziari interni e globali. Il nostro è un paese in cui troppo spesso la sua storia è stata caratterizzata da una forte subordinazione della politica a centri di potere legali o illegali, accomunati dall’interesse a conservare un tasso d’illegalità così elevato che potesse assicurare loro laute fonti di nutrimento e di accumulo illecito di ingenti capitali in danno delle risorse del paese. Una vera e propria espropriazione dei centri decisionali della vita democratica del paese. Non si può ignorare che in una democrazia avanzata la funzione del magistero penale non può che essere quella di evidenziare gli aspetti patologici di un corpo malato e che la cura spetta alla politica. Purtroppo l’illegalità è così diffusa e radicata in Italia che è impensabile ritenere che la crisi che stiamo attraversando possa essere risolta tutta nel giudiziario. L’attuale doverosa sovraesposizione della magistratura non è soltanto segno di crisi della legalità ma anche di crisi della democrazia. In questi giorni sento con terrore parlare di riforma della giustizia. Non vorrei che le annunciate riforme della giustizia si risolvessero in controriforme tese a ridurne gli spazi d’intervento. Ma, nel contempo, sia ben chiaro che qualsiasi riforma tesa al miglioramento della funzione giurisdizionale sarebbe del tutto sterile se non venisse accompagnata da una forte ripresa del ruolo della politica e del recupero della sua autonomia dai poteri forti dell’economia e della finanza. Una rifondazione, insomma, della cultura politica del nostro Paese sicché il termine politica non venga più considerato, come oggi avviene, sinonimo di disvalore.

di Mario AlmerighiConfronti.net


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