La ministra delle pari opportunità, Josefa Idem, ha dato avvio ufficiale alla task force annunciata dopo la sua nomina e in realtà già avviata da giorni in via informale. Stamattina si sono incontrati i capi di gabinetto dei ministeri dell’Interno, Istruzione, Giustizia, Economia, Lavoro, Difesa, Integrazione, Salute, coordinati dalla Capo di gabinetto, consigliera Germana Panzironi della Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento Pari Opportunità, che – come si legge sul comunicato – “hanno condiviso la necessità di avviare relazioni di confronto al fine di adottare, a breve termine, misure di contrasto in particolare contro il femminicidio e la violenza contro le donne”. Si legge, sempre sul comunicato, che “Il prefetto Giuseppe Procaccini, accompagnato dalla consigliera Isabella Rauti, ha assicurato concreto sostegno da parte del Ministero dell’Interno e dei prefetti nel contrasto sul territorio dei fenomeni di violenza. Il consigliere Luigi Fiorentino ha fornito utili indicazioni per diffondere i principi del rispetto verso le donne già a partire dal sistema scolastico. I gabinetti di Giustizia, Lavoro, Salute, Integrazione, Difesa ed Economia hanno esposto le proprie proposte nell’ambito delle rispettive competenze: rafforzare l’impianto sanzionatorio e accelerare il processo penale; adottare misure antidiscriminazione negli ambienti di lavoro; contrastare la violenza sulle donne immigrate; coordinare le strutture sanitarie che si occupano di violenza sulle donne”. Idem ha anche costituito tre gruppi di lavoro coordinati dalle pari opportunità: il primo, diretto da Linda Laura Sabbadini (Istat), dovrà disegnare l’Osservatorio sulla violenza di genere per il monitoraggio del fenomeno, individuando i gap informativi esistenti e le azioni da mettere in atto; il secondo provvederà a ricavare elementi utili all’emissione di un bando per l’istituzione di un numero verde per gli uomini maltrattanti; e un terzo, coordinato dalla giornalista Natascha Lusenti, avrà il compito di studiare azioni di comunicazione e informazione che verranno lanciate nei successivi sei mesi.
Tutte premesse ad azioni ancora da svolgere, e che vedremo, ma di sicuro precedute, qualche giorno fa, da un passo assolutamente inadeguato della guardasigilli e su cui sarà opportuno chiarire alcuni punti fondamentali per non commettere altri errori, soprattutto così gravi. E mi riferisco al decreto-legge della ministra Cancellieri, dal titolo “Disposizioni urgenti per contrastare il sovraffollamento delle carceri e in materia di sicurezza” (26 articoli divisi in cinque capitoli), in cui al capitolo IV si leggono norme per la “Prevenzione e contrasto di fenomeni di particolare allarme sociale”. Un pacchetto che ha trovato in disaccordo il ministro Alfano, tanto da posticiparne la discussione a venerdì (forse) e su cui, come scrive Grignetti sulla Stampa, “C’è la forte possibilità che del decreto originario resti la parte sulla violenza domestica, il furto d’identità e l’assunzione di 1.000 nuovi vigili del fuoco, e che venga stralciata la parte dedicata alle carceri”. Ebbene, diciamo subito che anche il capitolo sulla violenza domestica non va, perché inadeguato e inefficace anche come misura a breve termine, nonché pericoloso. Misure che, se vediamo attentamente, passano sulla testa delle donne che non decideranno ma saranno “decise” da eventuali segnalazioni di terzi (per esempio il medico del pronto soccorso dato che qui si riduce la violenza domestica a lesioni personali “non episodiche”), a prescindere dalla volontà dei soggetti interessati, con tutto quello che comporta – per la donna – intraprendere un percorso del genere. Contraddicendo la Convenzione di Istanbul (che al senato verrà ratificata domani), che dice chiaramente che “la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini”, l’assunto del provvedimento che cancella l’autodeterminazione della donna a decidere con la scusa di proteggerla, impone chiarimenti in proposito: perché un conto è indicare all’interessata il percorso informandola degli strumenti che ha a disposizione per uscire dalla violenza, e un conto è costringerla a rischiare sul suo corpo. In più, per il contrasto al femmminicidio (parola che comprende l’intera gamma delle violenze che una donna può subire e non solo la morte della donna in quanto donna), questi provvedimenti schiaffati in un pacchetto che parla di altro, e che non sono stati ragionati sulla base di una seria verifica delle mancanze istituzionali e di applicazione di norme già esistenti – come richiesto più volte dall’Onu – risultano un’azione di facciata. La Special rapporteur dell’Onu sulla violenza contro le donne, Rashida Manjoo, ha detto chiaramente e senza indugio, quando è venuta in Italia, che la violenza coinvolge una responsabilità dello Stato italiano e che le donne “non denunciano e non segnalano” sia perché sono all’interno di un “contesto culturale patriarcale incentrato sulla famiglia”, con forte dipendenza economica della donna, sia perché la percezione riguardo alle istituzioni non è quella di uno Stato che protegge le donne, ma al contrario le espone in “un quadro giuridico frammentario con inadeguatezza delle indagini, delle sanzioni e del risarcimento alle vittime, fattori che contribuiscono al muro di silenzio e di invisibilità che circonda questo tema”. Una esposizione che con questo “pacchetto” sarà aumentata.
A cosa è servito allora la ratifica della Convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica? Forse non ci siamo capite.
Adottare misure efficaci sul femminicidio non è in nessun modo l’adozione di misure “urgenti” buttate lì per far vedere che si fa qualcosa, perché se la violenza domestica si rivela come “la forma di violenza più pervasiva che continua a colpire le donne italiane”, cioè la più diffusa e la più capillare, forse va presa da un’altra parte.
Il primo articolo dice che nei “casi in cui alle forze dell’ordine sia segnalato un fatto che debba ritenersi riconducibile al reato di cui all’articolo 582 (lesioni personali, ndr), secondo comma, del codice penale, consumato o tentato, nell’ambito di violenza domestica, il questore, anche in assenza di querela, può procedere, assunte le informazioni necessarie da parte degli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti, all’ammonimento dell’autore del fatto. Ai fini del presente articolo si intendono per violenza domestica tutti gli atti, non episodici, di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima”.
Per prima cosa è un po’ ridicolo che vengano citate le parole della Convenzione di Istanbul (riportate qui in corsivo) in maniera riduttiva sia perché ci si riferisce a lesioni personali (quindi fisiche) sia per l’aggiunta della frase “non episodici“, che snatura tutta la portata della Convenzione che invece recita sulla violenza domestica: “tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima”. Per caso significa che la violenza nei rapporti intimi è solo quando il partner ti mena più volte e ti lascia i segni? (che è già una sottovalutazione intrinseca della violenza). Ma cosa dice l’articolo 582, secondo comma, del codice penale? tratta di lesioni personali per cui qualora il danno procurato abbia ”una durata non superiore ai venti giorni (…) il delitto è punibile a querela della persona offesa”. Quindi se ti menano e vai al pronto soccorso più volte (“non episodici”), il medico stesso segnalerà il fatto, così poi il questore chiamerà tuo marito e gli dirà di non farlo più. E poi tu come ci torni a casa, armata? ma soprattuto: a che serve?
Un ammonimento “d’ufficio” che non solo è riduttivo ma è ridicolo se pensiamo che ancora oggi spesso le forze dell’ordine rimandano a casa, o al massimo dal giudice di pace, le donne che con grande coraggio invece denunciano consapevoli di quello a cui vanno incontro. A cosa serve questo “pacchetto” se una donna che arriva faticosamente davanti a un giudice dopo aver denunciato con cognizione di causa e convinta di farlo, fatica poi a dimostrare la violenza subita, e soprattutto viene esposta senza tutela al suo offender nel lasso di tempo che passa dalla querela al giudizio, fino a rischiare la vita? e a che serve, se una donna che fa per sua volontà una, due, tre, quattro, anche dieci denunce si vede poi scivolare tutto nei meandri della “giustizia” senza nulla di fatto? se vede le sue denunce di stalking archiviate, procedimenti di affido condiviso coatto anche con procedimenti penali per maltrattamenti in famiglia in corso? perché non cercare di porre fine a questa infinita cultura di “sottovalutazione” della violenza cercando di far applicare le leggi che già ci sono, evitando magari di mettere a rischio la donna che affronta un iter lungo e complesso? e perché non porsi il problema che l’ammonimento senza volontà dell’interessata significa far sapere al coniuge violento che è stato segnalato, così quando torna a casa la massacra o l’ammazza direttamente? Provvedimenti che potrebbero portare le donne, che già non denunciano, a non ricorrere neanche più al pronto soccorso, perché se il medico segnala il partner senza il suo consenso lei avrà il terrore di tornare a casa. E poi al secondo articolo: “Il questore può richiedere al prefetto del luogo di residenza del destinatario dell’ammonimento l’applicazione della misura della sospensione della patente di guida per un periodo da uno a tre mesi”. Sospensione della patente? ma cosa cambia? che l’offender sta a casa per accanirsi ancora di più sulla partner?
La verità è che con questi provvedimenti si spoglia la donna di ogni decisionalità e consapevolezza del percorso che dovrà fare, e che invece di sostenerla, informarla dei suoi diritti, proteggerla, allontanando immediatamente l’offender, la donna viene ulteriormente esposta: un fatto che può anche produrre risultati contrari. Perché è vero che spesso le donne ritirano la denuncia o hanno paura di denunciare ma non è forzandole che si risolve il problema, bensì avviandole a un percorso, come già oggi fanno nei centri antiviolenza avvocate, psicologhe, operatrici, specializzate sulla violenza.
In più l’ammonimento esiste già ed è per gli atti persecutori (stalking) che avvengono per lo più in fase di separazione (mentre le lesioni alla persona avvengono maggiormente quando i due convivono o stanno insieme), e può essere richiesto dalla donna che non vuole fare subito denuncia (Decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 – “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori” – Art. 8. – Ammonimento). Ammonimento che può essere efficace quando l’uomo non vive con te, perché magari in fase di separazione, mentre quando ci vivi insieme è necessario l’allontanamento e non l’ammonimento che invece ti espone, tanto più se viene fatto senza il consenso dell’interessata.
Secondo Teresa Manente – avvocata responsabile Ufficio legale Differenza Donna ONG e referente nazionale rete avvocate dei Centri antiviolenza Ass. Di.Re – “Premesso che la violenza di genere non è un problema di emergenza sociale ma culturale, come ormai ribadito da tutti gli organismi internazionali, l’esperienza ventennale nella difesa dei diritti delle donne vittime di violenza di genere, e in particolare della violenza domestica, maturata nei Centri antiviolenza mi insegna che, quasi sempre, quando la donna chiede l’intervento delle forze dell’ordine aumenta l’escalation di violenza perché l’uomo violento punisce la donna che si è ribellata al suo controllo. Disporre l’ammonimento per l’uomo violento senza predisporre contestualmente una protezione per la vittima, di fatto, significa aumentare il rischio per l’incolumità della stessa. La Convenzione di Istanbul e la Direttiva 2012 del Parlamento Europeo e del Consiglio l’Unione Europea in materia di diritti delle vittime di reato, non a caso, parlano di diritto all’informazione, sostegno e protezione della vittima. A mio parere queste misure servono a poco se non sono inserite in un sistema articolato che dispone di una politica integrata”, (come spiega ulteriormente l’avvocata nel testo riportato sotto riguardo i diritti della persona offesa e la protezione delle donne che subiscono violenza).
Per Barbara Spinelli, avvocata esperta di femminicidio, “se siamo in un contesto di maltrattamenti, questo reato già prevederebbe l’adozione di misure maggiormente tutelanti della persona offesa rispetto all’ammonimento, come per esempio l’allontanamento. In casi di violenza in famiglia nell’ambito di un maltrattamento, in assenza della denuncia, iniziare il procedimento penale d’ufficio, o anche ai soli fini dell’ammonimento avviare un contatto con il maltrattante, potrebbe determinarne l’esposizione ad una escalation di violenza, perchè, a differenza dello stalking,che riguarda fatti tra persone nella maggior parte dei casi non conviventi, nel caso dei maltrattamenti l’aggressore si ritrova a continuare a convivere con la donna su cui esercita violenza, sapendo di non avere più il pieno controllo della situazione, e di essere esposto a conseguenze per le sue azioni.La definizione di violenza domestica contenuta nel decreto legge riduce la portata del concetto di violenza domestica così come definito dalla Convenzione di Istanbul, e questo è grave perché determinerebbe una applicazione ristretta di tutte le altre norme della convenzione. Allora dobbiamo pensare che c’è proprio una volontà politica di continuare a minimizzare la violenza in famiglia, a negare la realtà delle violenze psicologiche ed economiche, e la necessità di protezione anche per le donne che subiscono situazioni di questo tipo. Va ribadita la necessità di raccogliere i dati, di capire quali sono i nodi da sciogliere attraverso i lavori di una commissione parlamentare di inchesta, prima di agire: altrimenti si continueranno a fare errori. Se tu ratifichi la Convenzione di Istanbul – continua Spinelli – e riconosci quella definizione di violenza domestica, non puoi dopo decidere di intervenire a protezione della donna solo nei casi di maltrattamento in cui vi sono episodi di violenza fisica. Cosa significa aggiungere non episodica alla definizione di violenza domestica offerta dalla Convenzione? Significa affermare che tutte le misure contenute nella Convenzioni di Istanbul sono valide solo per le donne maltrattate, e non anche per le altre donne che comunque subiscono violenza nelle relazioni di intimità. E’ questo il meccanismo che porta in Italia ancora a confondere la violenza domestica con la conflittualità coniugale, a riconfermare l’idea che insomma, lo isu corrigendi della moglie, anche se la legge da 40 anni lo ha eliminato, tutto sommato a noi piace. Due schiaffetti si possono perdonare. Questa logica di intervento legislativo, esprime il profondo radicamento di una cultura sessista, ed è veramente intollerabile, tanto vale allora non ratificare la Convenzione, se culturalmente non si è ancora pronti ad accettarne le conseguenze”.
Il problema della violenza maschile sulle donne, lo abbiamo detto fino all’esaurimento, va affrontato in maniera strutturale e non emergenziale. Prima della repressione e inasprimento delle pene, lo abbiamo ripetuto, servono strumenti di prevenzione e protezione, e questa consapevolezza, che non appare in questo decreto in cui s’infila la violenza domestica in una contesto “altro”, deve partire dalla piena consapevolezza di cosa sia la violenza: un passo fondamentale per le istituzioni che non possono pretendere questa consapevolezza sulla violenza da parte delle donne, se prima di tutto non la maturano loro. Un Governo che si è impegnato su un lavoro interministeriale guidato dalle pari opportunità, ascoltando la società civile, non presentare provvedimenti di questo tipo, perché fa tornare indietro tutti. Come dice Spinelli il profondo radicamento di pregiudizi sessisti ha impedito una buona applicazione delle leggi esistenti, e anche per questo “urge un cambio di approccio delle istituzioni alla vittimizzazione femminile determinata da violenza di genere, in particolare nelle relazioni di intimità”.