Subito dopo la caduta di Siad Barre, la guerra civile si impossessò della Somalia costringendo migliaia di persone del sud del paese a fuggire verso la salvezza individuata in Kenya. Qui, subito dopo il confine, già nel 1991 venne creato il campo di Dadaab per ospitare 90.000 profughi. Da allora il loro numero è aumentato cinque volte: Dadaab è la terza città del Kenya dopo Nairobi e Mombasa, ma senza un sindaco. Adesso ospita 463.500 persone che cuociono a 50 gradi nella stagione secca e quasi affogano per le inondazioni nella stagione delle piogge.
La vita a Dadaab è un inferno. Per i profughi si opera su due livelli. Un primo livello per l’emergenza dei nuovi arrivi. Un secondo livello per i permanenti cui si dovrebbero offrire alloggi e strutture per acqua, scuole, polizia e ospedali, ma si tratta spesso di strutture fatiscenti o inesistenti. Anche per gli operatori umanitari la vita è difficile stretti fra gruppi di banditi, fanatici islamici di Al Shabaab che si infiltrano ed epidemie. Recentemente si è diffusa quella della poliomielite e si è dovuto ricorrere alla vaccinazione d’urgenza di massa. Ci sono stati anche episodi di rapimenti di operatori umanitari e operai delle ONG venduti come schiavi ai pirati della costa. L’ultimo rapporto di Safe the children è raccapricciante: l’80% dei minori, maschi e femmine, ha subito violenza sessuale. E’ stato anche per rafforzare la sicurezza interna che le truppe del Kenya sono penetrate per 100 chilometri in territorio somalo il 16 ottobre 2011. Al Shabaab ha risposto con attentati terroristici a Nairobi attaccando anche convogli umanitari di Dadaab. Il Kenya recluta i giovani rifugiati per combattere contro Al Shabaab. Ma tanta conflittualità continua a generare seri problemi di sicurezza in tutta la Regione.
Non è quindi un caso se il rimpatrio dei profughi di Dadaab è stato il tema principale dei colloqui dello scorso 31 maggio tra le due ministre degli esteri: la keniota Amina Mohamed e la somala Fawzia Yusuf Haji Adan. E’ singolare notare che anche Amina Mohamed è somala: proviene dalla regione NFD occupata dal Kenya sin dal 1925, ma in origine somala, abitata da somali e mai rinunciata dalla Somalia. Il Presidente Uhuru Kenyatta, in carica dal 9 aprile scorso, l’ha voluta Ministro degli esteri del Kenya per la sua prestigiosa carriera internazionale.
Proprio oggi è stata diffusa la notizia che il Kenya ospiterà, nella seconda settimana di agosto, una grande conferenza internazionale per discutere sulle modalità di rimpatrio di più di un milione complessivo di rifugiati somali di cui solo 600.000 regolarmente registrati. La conferenza sarà cogestita da Kenya, Somalia e UNHCR e sarà invitata l’Organizzazione Internazionale per l’Immigrazione (IOM).
Lunedì scorso la Ministra Amina Mohamed ha rivelato che alcune organizzazioni internazionali stanno già individuando luoghi sicuri per reinsediare i rifugiati nella loro patria, mentre altre organizzazioni si sono occupate dei documenti e di raccogliere questionari sui luoghi di origine, sebbene molti dei rifugiati somali non abbiano mai visto la Somalia e ben due generazioni abbiano conosciuto solo la vita dei campi.
La Ministra Amina Mohamed ha riferito che metà dei rifugiati è disposta a tornare volontariamente, ma ha spiegato di volere per loro un ritorno ordinato e dignitoso. Nulla si dice però di quell’altra metà di rifugiati che esita a tornare in patria senza adeguate garanzie.
La soluzione non è nei campi, ma nel reinserimento dei rifugiati nelle loro comunità di origine dando loro l’accesso a microfinanzimenti per costituire cooperative agricole specialmente nelle zone fertilissime tra i due fiumi Juba e Shabelle e sotto l’amministrazione del Governo federale.
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