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Parole come pietre

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di Mario Sarti

http://www.liberainformazione.org/2013/05/31/parole-come-pietre/

Giornalismo è responsabilità (quanto male si può fare scrivendo sul giornale di un ‘banale’ incidente mortale?). Giornalismo è coraggio e voglia di capire. Giornalismo è anche la capacità di interpretare un contesto, una situazione. E di raccontarla con le parole giuste. Non con le prime che ci vengono in mente, non con quelle che usano tutti, ma quelle che rendono giustizia e rispetto, che spiegano una storia, le parole che danno senso a nome, un volto. Così, se parlo di un giovane “costretto sulla sedia a rotelle” mi devo prima domandare che cosa sto scrivendo. Dove voglio arrivare: costretto dalla malattia? Dalla sfortuna? Costretto da chi? Ecco, qui, le parole sono importanti. E un clandestino, poi, cos’è? Cosa ha fatto di male per nascondersi alla vista degli altri, o anche solo dalla burocrazia di un paese? “Parlare Civile” un bel manuale pubblicato dall’agenzia di stampa Redattore Sociale (Bruno Mondadori, 2013) ci viene incontro. “Comunicare senza discriminare” recita il sottotitolo. E in quarta ricorda: “Non esistono parole sbagliate. Esiste un uso sbagliato delle parole”. Le parole: Redattore Sociale ne ha scelte alcune: disabile, handicappato, badante, negro, vu cumprà, mendicante, prostituta, ebreo, zingaro, matto… Parole che usiamo tutti, ma che se vengono stampate su carta o messe in rete, lasciano sempre una scia dietro di sé. Una lunga scia grigiastra, a seconda degli stereotipi, delle pigrizie, dei pregiudizi che si trascinano dietro. Parole che talvolta nascondo anche profonda ignoranza, o che vengono usate come armi. Come provocazioni. Un termine come “negro”, ad esempio, bandito da tutta la stampa solo fino a qualche anno fa, torna da mesi a fare capolino sui giornali della destra italiana, un po’ come per smitizzare un certo stile politicamente corretto. “Parlare civile” ci aiuta:

“La parola negro va evitata perché chi la usa, lo fa esprimendo ignoranza o scarso aggiornamento o perché vuole offendere – dice il sociologo Enrico Pugliese -. Ma ciò per un preciso motivo. In America i diretti interessati hanno preteso che il termine non si usasse, perché ritenuto offensivo (e forse perché usato anche in modo offensivo) da una certa epoca in poi. In effetti, negli ultimi cinquant’anni, le organizzazioni di sostegno alla popolazione nera non hanno mai usato questo termine orientandosi prevalentemente verso altri (black, afroamerican, colored). Questo è un caso inequivocabile in cui la parola non va usata per un richiamo implicito a un passato di schiavitù. Però si può dire che una volta in America invece di black si diceva negro (e in slang degli stati del sud, nigger)”.

Bene ha fatto, recentemente, la ministra Cécile Kyenge, a specificare che lei non è “di colore” come, quasi arrossendo, avevano cominciato a scrivere i giornali subito dopo la sua nomina a ministra dell’Integrazione. “Io sono nera” ha detto. La mia pelle è di questo colore. “Sono una ministra nera”. E così tutti a correggere in pagina, e – per chi ne aveva voglia – a farne scoppiare un caso, un bel retroscena sulla gaffe di chi aveva già parlato del “ministro di colore”. Le parole cambiano, si modificano. Spariscono. “La parola zingaro è discriminatoria in sé, al di là dell’uso che se ne fa, ed è equiparabile a un insulto razziale come negro per la comunità nera. Il motivo è che si tratta di una parola imposta dalla società maggioritaria a un gruppo che non si autodefinisce così – leggiamo sempre sul manuale di Redattore Sociale – . E’ di questo avviso Eva Rizzin, dell’Osservatorio sulle discriminazioni Articolo 3. ‘In romanes non esiste un modo per tradurre zingaro – dice l’attivista sinta – non è il termine che gli stessi appartenenti alla comunità utilizzano quando parlano tra loro’. Insomma, un rom non direbbe mai zingaro ad un altro; capita però che gli appartenenti alla comunità usino questa parola quando parlano con un non rom, con un gagè”.

Coordinato da Stefano Trasatti e Antonio D’Alessandro, con in redazione Raffaella Cosentino, Giorgia Serughetti e Federica Dolente, “Parlare Civile” contiene anche una utile e ricca biblio-webgrafia. L’obiettivo – scrive Trasatti nell’introduzione – è quello di “porsi come servizio per cittadini, in particolare per gli operatori della comunicazione, fornendo le conoscenze di base aggiornate per trattare e valutare le informazioni su temi ‘sensibili’, al fine di garantire una loro trasmissione corretta sui mass media e ridurre il rischio di discriminazione”. Sembra facile. Eppure c’è già chi gli ha dato dei matti, a questi di Redattore Sociale. Ma si potrà dire? “Il matto è, letteralmente, colui che ha perso il lume della ragione… Continua a pag. 147”.

Da liberainformazione.it


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