Il reportage si trasforma in arte nelle immagini traboccanti di umanità del fotografo americano, in mostra al MACRO di Roma (fino al 29 aprile).
Il consueto scorrere del tempo diluisce in contorni sfuocati le immagini del nostro presente. Frammenti sospesi di realtà, che non necessitano di spiegazioni forzate né di equilibrismi interpretativi, ci appaiono le istantanee di Steve McCurry, viaggiatore instancabile e lirico lungo le strade attraversate dagli abissi del dolore e dai pulviscoli di luce della speranza, insiti nella condizione umana. Dettagli, ritratti, paesaggi avvolti da luci soffuse, da toni che rievocano l’intensità caravaggesca e la profondità ritmica dei chiaroscuri di Rembrandt, tracciano in modo discreto, intimo, gli scenari dentro i quali si sono svolte le vicende storiche degli ultimi decenni, travolgendo la vita sociale e culturale di intere collettività.
“Voglio capire e mostrare cosa significhi essere quella persona, colta in quel preciso contesto, il suo senso universale che può definire la condizione stessa dell’essere umano”, racconta McCurry, “la maggior parte delle mie immagini trovano radici nelle persone e io sono sempre in cerca del momento inaspettato, l’essenza dell’anima, che si affaccia per una frazione di secondo, le storie di vita incise sui volti”. E i Padiglioni della Pelanda, all’interno del suggestivo ex-Mattatoio di Roma, a Testaccio, sono il luogo ideale per ospitare la mostra “Steve McCurry – Viaggio intorno all’uomo” e smarrirsi sulla strada di una ricerca esistenziale attraverso mondi diversi dalla nostra quotidianità, lasciando che siano le emozioni a guidarci, a fondere il presente con un passato ricco di archetipi, così da indicare un punto di svolta verso un infinito di promesse: somma di culture e sottrazione di barriere. Si segue un percorso obbligato, alternando assonanze e contrasti, attraverso una “sorta di villaggio nomade con una serie di volumi che si compenetrano fra loro, per restituire quel senso di umanità, che si respira nelle foto”, spiega Fabio Novembre, curatore dell’esposizione, concepita come un susseguirsi di aeree strutture dalle volte gotiche, congiunte sotto un unico tetto “volante”, che riunifica simbolicamente i punti opposti del globo. Un itinerario impegnativo tra una yurta mongola trasparente e l’altra, ricolme di 200 foto del raffinato maestro della Magnum.
Per entrare si passa, come per un rito iniziatico, davanti ad un portale composto da infiniti tasselli dalle mille sfumature. Gli sguardi sul mondo di McCurry: “l’ampio mosaico dell’esperienza di 30 anni di incontri casuali con sagome ed ombre, acqua e luce”.
Come in un magico gioco di riflessi e luminosità, di contrasti e rapporti cromatici, i frammenti si ricompongono in un’unica grande immagine: la sua foto-icona di Sharbat Gula, la ragazza afgana dagli occhi verdi smarriti e fieri, accentuati dal logoro velo rosso cupo, drappeggiato, che le circonda il viso e le ricade sulle spalle, ripresa nel campo profughi di Peshawar in Pakistan, nell’84. Le fa da contrasto il “fiammingo ritratto” della splendida scolara ad Herat nel ’92, in grigio monacale che si stacca dal fondo nero per il candido foulard. Una nuova vita viene alla luce, in un ospedale a Jaipur, nel Nord dell’India, nel 2009; uova colorate augurali sono trattenute da mani ruvide, fra drappeggi violetti, a Kabul. Primi piani “familiari” di piccoli afgani, cambogiani e tibetani; quindi, i visi piegati da sofferenze e fatiche dei minori schiavizzati: ai forni del pane, nei cantieri edili, nelle cave, al tornio. Visi da “uomini” di dieci, dodici anni, sui quali l’infanzia non ha fatto in tempo a lasciare traccia. Ad alcuni ha impresso solo ferite, come alla piccola vittima di una mina antiuomo in Afghanistan, nel 1992: il capo coperto da bende, la camicetta insanguinata, lo sguardo che rende superflue le parole a descrivere l’orrore.
“Sono i non combattenti, i civili che si ritrovano nel mezzo di due fazioni in lotta” ad entrare nel suo obiettivo, perché “tutti noi possiamo identificarci in queste persone, sulle quali ricadono le conseguenze più gravi e terribili dei conflitti”. E’ il bel volto “perduto”, incorniciato dal velo verde smeraldo, di una adolescente afgana del 2002, moderna trasposizione della Madonna di Antonello da Messina, a rivelarci il dolore delle ferite interiori causate dalle bombe. E poi c’è la miseria delle vedove di Kabul, costrette a mendicare. Una di loro emerge col suo burqa giallo-oro dal buio dell’uscio, profilato dal turchese di una casupola diroccata; un’altra, accovacciata dentro i suoi panni viola, allunga la mano nella penombra di un vicolo tagliato da ombre scure. Il venditore di arance le dispone sulla carcassa di un’automobile fra grigiore e rottami. Solo due occhi profondi tagliano come una lama il velo nero che copre la donna yemenita di Sana’a’.
Sotto la dolcezza di un sapiente sfocato e della pioggia battente, una mamma stringe al petto il suo bambino a Bombay. Nei vicoli azzurri a Jodhpur, un bimbo scalzo spicca il volo mentre corre. Nel buio della sera, il villaggio color ocra vicino Herat appare come un presepe dimenticato: al centro le luci di un focolare domestico svelano la sua intimità.
E’ la componente emotiva a guidare sempre la mano di McCurry, per il quale: “il significato, il senso, deve sempre avere la priorità”. L’uso sapiente della luce, la composizione degli elementi, le sfumature del colore, completano l’armonia della sua narrazione, che si tratti di Sharbat Gula, diventata adulta e segnata dalla vita, ritrovata dopo anni di ricerche nel 2001, o del gioco del pallone, attimo di libertà ed evasione unificante ad ogni latitudine, o dei riti religiosi, arcaici, propiziatori. Spesso le meditazioni avvengono in armonia con la natura circostante. A volte, i monaci in arancione sono figure minuscole davanti ai templi birmani. Altre volte, sacro e profano si contaminano. Così il giovane buddista a Bodh Goya ha alle spalle il murales della Coca Cola; nel tempio di Saholin, in Cina, i monaci si allenano come atleti alla concentrazione, appesi ad un tubo a testa in giù. In Sicilia, la Settimana Santa è evidenziata da elementi di antichi riti pagani. La Roma barocca mischia madonne, santi e cianfrusaglie varie a Porta Portese. Il fumo dei pozzi petroliferi in fiamme, nel Kuwait del ‘91, oscura un cielo rossastro. Un grigio spettrale squarcia il cielo di New York l’11 Settembre 2001.
Ma c’è anche l’oriente sapiente e misterioso evocato dalle pagine di Pearl S. Buck nelle sue foto. L’India sospesa fra incanto e dannazione nella luce del giorno e il buio della notte, laddove tutti i sogni possono affiorare. Ci sono le atmosfere dei romanzi di L. Bromfield e di E. M. Forster, colori accesi che improvvisi si stingono nella penombra, lasciando intuire linee di fuga verso l’infinito. La bottega dell’indovino sul Gange si schiude ad ogni possibile incantesimo: il corso del fiume unisce il suo azzurro al rosa del tramonto, il chiromante seduto sull’atrio arancio è lì per leggere il destino; in primo piano la sagoma adombrata di un “intoccabile”, assorto con i suoi pensieri sul teatro della vita.