Di Pietro Orsatti
Le prime dichiarazioni del candidato sindaco del M5S a Roma Marcello De Vito raccontano più di ogni possibile analisi le ragioni del crollo elettorale del movimento: il candidato stellato infatti ha parlato di un calo del consenso che non sarebbe poi “così visibile” e poi candidamente ha annunciato di volersi astenere al ballottaggio. Per lui Marino e Alemanno sono la stessa cosa. Senso della realtà zero. Dove ha trascorso gli ultimi cinque anni mentre andava in scena il mix di demagogia e saccheggio famelico messo in atto da Alemanno e dalla sua inquietante corte? Del senso di responsabilità evitiamo quindi di parlare per non passare direttamente agli insulti.
In casa M5S si passa quindi dalla negazione dello schiaffone ricevuto (perdere più della metà dei consensi in poco più di tre mesi) al proseguire ciecamente nella strategia isolazionista e autoreferenziale che li ha stritolati. E non solo a Roma na in tutto il paese. Non si può pensare di convincere gli elettori della bontà del proprio programma quando pur avendo il 25% dei consensi si è trascorso il proprio tempo a parlare (e soprattutto di se) e basta. E poi le balle. Troppe. Perfino l’ultima lista di mirabolanti proposte legislative sbandierate da Grillo solo pochi giorni fa sono solo chiacchere. Perché non esistono testi di legge su quegli argomenti e soprattutto non sono stati presentati in parlamento. E queste cose, in un momento drammatico come questo, gli elettori le hanno perfettamente inquadrate.
Non credo che il M5S sia in grado di cambiare rotta e atteggiamento oggi. Per la sua natura padronale e democraticamente opaca. E questa convinzione l’hanno avuta anche la metà dei loro elettori. Questo vale ancora di più a Siena dove si è concentrata l’offensiva di Grillo nelle ultime settimane (sull’onda dello scandalo Mps) raggiungendo risultati ben al di sotto del 10%.
Ma nonostante il risultato di questo primo turno elettorale non ha certo vinto la linea delle “larghe intese”. Il dato dell’astensionismo è li davanti a dimostrarlo. Mai elezioni amministrative hanno riscontrato percentuali del genere. E in questo quadro non è che abbia tenuto il Pd. L’astensionismo ha riguardato tutti, Pd compreso. Il successo dei candidati progressisti (poi vedremo come andrà fra 15 giorni) nasce da un rifiuto sul piano locale delle larghe intese nazionali. Si vince quando si tiene in piedi un centro sinistra ampio e rigoroso che abbia al suo interno anche Sel e che sia avversario deciso del Pdl e di Berlusconi.
Il messaggio è chiarissimo, checché ne dica Epifani. Si è credibili e percepiti come responsabili solo se si rifiuta perfino l’ipotesi di una collaborazione con il sistema di potere e culturale insito nel berlusconismo. E contemporaneamente – e questo é un altro fatto – il Pd a livello nazionale ha fatto di tutto in questi mesi per perdere anche questa tornata di elezioni amministrative. Proprio perché non organica con il processo consociativista in atto Investendo poco e niente sul piano delle risorse e dell’esposizione a sostegno dei propri candidati. Sia in fase di creazione delle liste puntando fin troppo spesso sui candidati sbagliati -perdendo- nelle primarie sia poi nel corso della campagna elettorale vera e propria.
E qui è necessario tornare su Roma. La candidatura di Marino è stata vissuta fin dall’inizio come un corpo estraneo dalle correnti del Pd nazionale e dalle loro emanazioni a livello locale. Mentre Sel l’ha sostenuta fin dall’inizio (non tanto a livello locale quanto a luvello nazionale). Che sia chiaro. Quel 42% raccolto da Marino ieri non appartiene al Pd, ma al centro sinistra tutto. Quel centro sinistra che era stato incarnato dall’alleanza fra Bersani e Vendola e fondato su un progetto di uscita dal berlusconismo ieri a Roma ha raccolto il 42% dei voti. Marino quella proposta politica – che al Nazzareno provoca solo l’orticaria – l’ha riportata al centro del confronto politico nonostante avesse mezzo partito di origine contro e con la maledizione delle larghe intese sospesa sulla testa. Non credo di rivelare nulla di segreto nell’affermare che ancor prima della presentazione dei candidati alle primarie Ignazio Marino fosse di fatto letto (da tutti) come candidato di Vendola più che del Pd romano e nazionale.
Questo per far capire quanto le congiure suicide che hanno portato alle dimissioni di Bersani e alle larghe intese siano state nefaste sul piano nazionale. Perché, e lo dimostra il risultato di ieri, il centro sinistra poteva – certo con fatica – dare un governo al paese se Bersani avesse avuto il vero sostegno dei suoi e non fosse diventato oggetto di killeraggio da parte dei vari capi corrente (palesi e non) che puntavano da subito a un accordo con il Pdl e i montiani. E solo per ragioni di stretta sopravvivenza personale.