Quella fogna di Internet

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Quattro Anonymous arrestati, il pressing dell’Agcom per regolamentare in senso poliziesco il diritto d’autore, l’insistenza del presidente Boldrini sul tema della violenza nel web, la necessità di leggi speciali per Internet secondo Pietro Grasso, la riproposizione dell’obbligo di rettifica per i blog dentro la legge bavaglio, le 22 denunce per i commenti anti-napolitano del blog di Grillo…. e si potrebbe continuare. Sta succedendo qualcosa.

In una fase della vita del paese dove le larghe intese rendono difficile l’esercizio della critica ma anche trovare appoggio e consenso nei partiti tradizionalmente schierati per la libertà d’informazione, tutti questi indizi messi insieme possono prefigurare l’inizio di una guerra a Internet? Una normalizzazione del web in senso restrittivo? O solo un modo per sviare l’attenzione da altri problemi? Siamo noi ammalati di cospirazionismo? Forse.

Però l’insistenza dei detective della postale nel rimarcare che chi agiva per conto e come Anonymous lo faceva per interesse materiale e non ideologico non convince. Di sicuro è una perfetta psyop (psychological operation) per anticipare le critiche e minimizzare le reazioni di solidarietà verso gli arrestati, allo stesso tempo infangando la presunta purezza di Anonymous. Quindi doppio risultato. E in ogni caso farlo ripetere da ogni giornalista interessato puzza, perciò aspettiamo dibattimento e sentenza definitiva per tirare le conclusioni. Certo è che quelli del Cnaipic se l’erano legata al dito dopo che gli avevano bucato i server e diffuso materiale confindenziale che li riguardava compresi materiali relativi ai rilevanti interessi commerciali dei fornitori delle loro infrastrutture di sicurezza. E ci può stare.

Ma Laura Boldrini che attacca le false identità sul web come se non sapesse il furto d’identità è già punito per legge (c’è una sentenza della Cassazione di pochi giorni fa), invece stona. Stona che non sappia che l’anonimato è una risorsa per chi denuncia il malaffare mafioso sui blog, che esistono forum di autoaiuto rigorosamente anonimi per chi le violenze le subisce e che i cooperanti dall’estero devono nascondere la propria identità ai regimi dei paesi in cui risiedono per inviare informazioni in Italia. Stona anche se lo fa all’interno della sua, nostra, pur giusta campagna contro la violenza sulle donne. Non solo, manifesta una scarsa comprensione del fenomeno e la avvicina pericolosamente al sottosegretario D’Alia che voleva chiudere Facebook per un insulto e alla Gabriella Carlucci che nella scorsa legislatura con la motivazione della prevenzione della pedofilia voleva una legge contro l’anonimato scritta dal suo avvocato, Davide Rossi, all’epoca presidente di Univideo.

Grasso che cita la difficoltà di colpire i server posti all’estero si scorda che nel caso di Indymedia si è provveduto celermente e requisire i suoi due server in Inghilterra per le accuse a Trenitalia e che lo stesso è accaduto ai server norvegesi del collettivo Autistici/Inventati per la diffamazione verso il neofascista Iannone. Nel primo caso sono stati sfruttati i Mlat gli Accordi di mutua assistenza giudiziaria tra Usa e Ue (ddl 25 giugno 2003, trattato già firmato nel novembre 1982)

Il pidiellino Costa che afferma essere una scelta politica riproporre tal quale la legge bavaglio come a far finta che non ci sia stata una grande mobilitazione contro la stessa proposta di Alfano (e che si ripeterà) per evitare che con la riforma delle legge sulle intercettazioni “vengano messe le manette ai giudici e il bavaglio all’informazione”, compresi blog, forum e siti amatoriali che non adempiono all’obbligo di rettifica valido per la legge sulla stampa del 1948 e assolutamente inadatto a piattaforme a pubblicazione aperta di carattere amatoriale. Da lui ce lo possiamo aspettare. Costa è lo stesso che con Pecorella si prefiggeva l’obiettivo di trasformare ex lege l’intera Rete in un immenso quotidiano e trattare tutti i suoi utenti da giornalisti, direttori o editori di giornali per poterli citare in giudizio per diffamazione.

Ciliegina sulla torta, Cardani, il professore già collaboratore europeo di Monti che l’allora “supermario” volle dentro un’Autorità che oggi più governativa non si può – frutto di evidenti spartizioni partitiche come scrisse Ezio Mauro – vuole una legge fotocopia contro il copyright già bloccata l’anno scorso per evidenti profili di incostituzionalità – visto che non prevede l’intervento della magistratura per accertare le violazioni – e trasforma l’Autorità in una polizia privata, è chiaro che serve a colpire Google e Facebook e gli OTT per fare contenta Confindustria digitale, la Fimi e la Siae preoccupata del calo degli iscritti e che deve fare cassa a fronte della svendita del suo patrimonio immobiliare (ricordate il fondo Aida?).

Ecco a questi signori diciamo che ci è chiaro che questo attacco a tutto campo nasconde interessi giganteschi ed è condita da una crassa inesperienza del web, delle sue dinamiche e delle sue antropologie, e nasconde problemi più grossi: la crisi economica generale, dei modelli di business dell’industria culturale, dell’incapacità di attuare le riforme, della contestazione popolare e della paura verso ciò che non si conosce.

Tutti costoro però non hanno ancora speso una parola una per il furto delle email dei Cinquestelle e le denunce dei 22 blogger sul sito di Grillo.

A loro e a Michele Serra che nell’Amaca del 18 maggio invoca leggi per il “paese reale di Internet” diciamo che le leggi ci sono già, sono quelle dell’ordinamento e che i nostri investigatori le usano  per chiudere i siti della galassi antagonista come quelli dei neofascisti di Stormfront, i siti web dei bordelli sull’Appia Antica e per catturare i pedofili, e che la rete non è un far west come gli piacerebbe fare credere per tentare un ennesimo giro di vite della comunicazione indipendente e per zittire ogni voce critica sulla rete che si rivela sempre di più come lo strumento principale della riconfigurazione del potere nella società dell’informazione.

Ma se insistono a dire che non ci sono leggi, gli vogliamo ricordare il caso Angelucci-Wikipedia, per cui il senatore pidiellino ha ottenuto la rimozione dei contenuti che lo riguardavano dall’enciclopedia libera perché dannosi della sua reputazione? Oppure il caso Google Vividown con una prima condanna dei manager di Google per non aver prontamente rimosso un video offensivo della privacy di un giovane disabile?

Ma quante volte glielo dobbiamo dire?


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