La prima volta, il programma della marcia su Roma fu lanciato il 24 ottobre 1922 a Napoli in una grande adunata di camicie nere. In quell’occasione Mussolini disse pubblicamente: “o ci daranno il governo o lo prenderemo calando a Roma”. Nella notte fra il 27 ed il 28 ottobre 1922 le colonne fasciste partirono da più direzioni dirette verso Roma. La seconda volta, la marcia su Roma si fece a Brescia: era il pomeriggio dell’11 maggio 2013. Silvio Berlusconi aveva lanciato il suo proclama attraverso le sue televisioni: “La sentenza di ieri è davvero una provocazione preparata dalla parte politicizzata della magistratura che da vent’anni cerca di eliminarmi come principale avversario della sinistra e il rinvio a giudizio di Napoli fa parte di questo uso politico della giustizia”. Per questo il Cavaliere aveva convocato le sue truppe a Brescia per sferrare l’attacco finale alla mala pianta della giustizia ed estirparla dalle istituzioni. Per evitare di essere estirpato lui dal contesto sociale come capita, generalmente, a coloro che sono condannati per reati gravi.
Berlusconi non poteva accettare oltre lo scandalo di un potere diviso, di un potere di controllo di legalità, affidato ad un corpo di funzionari, non eletti da nessuno, che la Costituzione aveva accanitamente protetto da ogni ingerenza del potere politico e persino del popolo sovrano.
Nella mente del Cavaliere (sia Berlusconi che Mussolini) la divisione dei poteri era una bestemmia utilizzata dai comunisti per delegittimare le supreme autorità a cui tutti devono rispetto. Infatti nel suo discorso per l’apertura dell’anno giudiziario del 1940, il Cavaliere lo aveva detto a chiare lettere: “Nella mia concezione non esiste una divisione dei poteri nell’ambito dello Stato. Per pensare a ciò dobbiamo tornare indietro di un secolo e mezzo, e forse allora si giustificava più da un punto di vista pratico che dottrinale. Ma nella nostra concezione il potere è unitario: non c’è più divisione di poteri, c’è divisione di funzioni” (Annali di diritto e procedura penale, 1940).
Purtroppo c’era stato il disastro del 1945, che aveva vomitato tutta quella demagogia della democrazia e dei diritti umani, che si era condensata proprio nella Carta costituzionale italiana. L’ordinamento costituzionale della Repubblica contraddiceva frontalmente i principi che avevano animato la lotta condotta dal primo Cavaliere e quelli che animavano la lotta generosamente combattuta dal secondo Cavaliere per porre termine allo scandalo del potere diviso.
Erano vent’anni che Berlusconi, come San Giorgio, combatteva eroicamente contro il drago della magistratura che non voleva essere ricondotto alla ragione e si aggrappava ai falsi idoli della legalità, dell’obbligatorietà dell’azione penale e dell’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, utilizzando come pretesto la Costituzione.
Ma questo pretesto non poteva durare all’infinito, per questo il Cavaliere da molti anni aveva lanciato un offensiva per demolire la Costituzione e farla a pezzi. Nel 2005 (anno quinto del Regime) c’era quasi riuscito, facendo approvare dai suoi dipendenti in Parlamento un nuovo ordinamento, destinato a mandare in soffitta la vecchia Costituzione ed a ripristinare i pieni poteri al premier, come aveva fatto il primo Cavaliere con la legge sui poteri del Primo Ministro (L.24/12/1925 n.2263). Purtroppo il partito dei comunisti capeggiato da Scalfaro aveva fatto infrangere il suo sogno sulle secche del referendum.
Ma non per questo il Cavaliere aveva demorso ed adesso si preparava a guidare una nuova Convenzione convocata allo scopo di fare la pelle alla Costituzione.
Però il Drago magistratura continuava a sputare sentenze ed incriminazioni. Ormai la situazione si era fatta incandescente, il Cavaliere rischiava di essere arrostito vivo dal fuoco delle condanne. Per questo aveva deciso di lanciare la sfida finale, come aveva fatto l’altro Cavaliere 90 anni prima. Parafrasando il primo Cavaliere, disse: “o ci daranno l’impunità o ce la prenderemo”.
La Storia ci ha fatto conoscere l’esito della prima marcia su Roma.
Della seconda, dirottata a Brescia, ancora non sappiamo come andò a finire.