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La Tv resta cosa sua

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Diciotto aprile 2002, con l’editto bulgaro si compì l’apoteosi del conflitto  d’interessi. B. accusò Biagi, Santoro e Luttazzi di “aver fatto un uso  criminoso della tv”. La risposta di Biagi fu immediata: “Quale sarebbe  il reato? Stupro, assassinio, rapina, furto, incitamento alla  delinquenza, falso e diffamazione? Denunci?” Quel giorno di dieci anni  fa cambiò radicalmente la televisione italiana nel suo valore più alto:  il pluralismo, minando la stessa democrazia. Le truppe del Cavaliere  conquistarono il ponte di comando della Rai. Da quel momento la  subalternità a Mediaset  ha portato la tv di Stato a un  lento e inesorabile declino. Oggi l’indebitamento dell’azienda è di  250/300 milioni di euro. Il vero obiettivo del Cavaliere è sempre stato  quello di avere il controllo industriale del mercato: frequenze,  digitale terrestre, pay tv, neutralizzando di volta in volta  l’avversario di turno: prima la Rai, poi La 7, infine Sky.

Tutto ciò è potuto accadere grazie  alla debolezza degli oppositori politici, a leggi ad personam e  all’incapacità della concorrenza di comprendere che il digitale sarebbe  stata la rivoluzione industriale del sistema delle telecomunicazioni. Il governo Monti, lunedì scorso, ha abolito definitivamente il beauty contest, ma B. avrà lo stesso quello  che il fido Romani gli aveva promesso: un nuovo canale a costo zero. La  sceneggiata napoletana di Confalonieri, urla, pianti, vesti strappate, è  servita solo a metter fumo negli occhi a quei politici incompetenti o  in malafede che per l’ennesima volta fanno finta di non  capire cosa sta accadendo.

Il  ministro Passera, pur rispondendo ad una direttiva dell’Eu, è stato  costretto ad inserire nella riforma del Codice delle Comunicazioni  elettroniche una norma che consentirà la conversione per decreto al  digitale terrestre (senza costi per le società) dei tre canali già  assegna-ti a suo tempo a Mediaset, Rai e H3G (la telefonica 3), cioè a  quelle società che nel 2005 avevano tentato, inutilmente, il business  della tv sul cellulare. Il canale designato per Mediaset è il 38,  ovviamente il migliore, guadagno possibile: 300 milioni. Quello della  Rai è l’11, il più scadente, pressoché inutilizzabile come canale  televisivo.

Dov’è finita la Rai? Perché non fa  sentire la sua voce? Ancora una volta l’esclusa è La7 se vorrà aumentare  la propria capacità trasmissiva (indispensabile per coprire tutto il  territorio), dovrà concorrere fra 120 giorni all’asta delle frequenze.  Il condizionamento industriale di Mediaset su La7 parte da lontano. Nel  2001 quando B. tornò a Palazzo Chigi, come primo atto favorì il passaggio di proprietà  della Telecom da Colaninno a Tronchetti Provera, questo gli consentì di  bloccare sul nascere La 7 (l’ex Tmc acquistata da Cecchi Gori dalla  Telecom di Colaninno), che si proponeva sul mercato come il terzo polo  tv con un obiettivo d’ascolto in prima serata del 5%. La trasmissione  d’inaugurazione (festa per la Roma campione d’Italia, condotta da Fabio  Fazio), raggiunse il 15% di share.

Il rapporto tra B. e Tronchetti  Provera è proseguito negli anni, nel 2006, Telecom si unì alla Rai e  alla H3G per costruire la tv via cellulare, invece di affittare la  frequenza dalla controllata TimB (Telecom Italia Media Broadcasting),  stipulò un contratto con Mediaset (utilizzando il canale 38) fino a  dicembre 2010. Grazie a ciò Mediaset      è riuscita a digitalizzare la  frequenza a spese della Tele-com. Non c’è stato un politico che abbia  fatto un’interrogazione parlamentare su questa “bizzarria”. Quanto è  costata alla Telecom la vicenda Tavaroli? Solo B. e Tronchetti Provera  conoscono la risposta. Una delle ragioni perché oggi, nonostante  l’aumento d’ascolto, La7 vale solo il 2% del mercato è data dalla  mancanza di indipendenza industriale negli anni in cui era importante investire sul digitale. Servono a poco i ricorsi al Tar e le lettere al  presidente della Repubblica dell’amministratore delegato Stella, fino a  quando il mercato rimarrà in mano a Mediaset.

Un inizio di libertà e  pluralismo potrebbe arrivare da un atto del ministro Passera, che  segnerebbe la fine dell’anomalia italiana: vietare che l’operatore di  rete, cioè il gestore delle frequenze, sia contemporaneamente anche il  produttore dei contenuti. Cinque anni dopo l’editto bulgaro, aprile  2007, Enzo Biagi, pur molto malato tornò in onda con Rt Rotocalco      televisivo e B. fu costretto,  grazie ad una domanda di un radioascoltatore in diretta su Radio1, a  fargli i complimenti. La volontà di Biagi fu più forte del conflitto di  interessi. La lezione però non è servita alla politica.

* da Il Fatto Quotidiano


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