E’ una sorta di nichilismo querulo, irredimibile,coriaceo (perché irascibile alla sola idea che possa esistere l’antidoto di una ‘vaga speranza’) quello che Gabriele Lavia, di scena all’Argentina di Roma, afferra e tiene ben stretto nella pirandelliana “La trappola”, sino ad una immedesimazione che sembra svelare l’amaro miele della consonanza autobiografica. Quella di “un uomo che si muove smarrito nella sua avita casa”. Mentre di là, fuori scena, un altro uomo piange . “E’ il vecchio padre di quell’uomo solo. Un vecchio che mangia imboccato dal figlio, i bisogni corporali se li fa addosso come i bambini piccoli. E piange. Piange senza un’apparente ragione” La casa è cupa,insalubre, colma di scartoffie e vecchi volumi rosi dalla polvere.
Nell’amara e schiettamente disperata filosofia dell’ Agrigentino (che scrisse questa atra novella poco più che quarantenne) l’idea di ‘trappola’ è allegorica ma, allo stesso tempo, tremendamente tangibile. La casa è una trappola, anche se ha la si utilizza come tana. Non di meno, il pensiero, l’attitudine al ragionamento sono trappole mentali da cui è impossibile evadere, salvo ‘abbracciare’ la follia. Del resto anche venire al mondo, procreare, innamorarsi, ‘prender gusto’ alla vita è un calappio ‘doppiamente infame’. Perché dal momento in cui si viene al mondo non si ‘può fare altro che iniziare a morire’, cosparso di sentimenti, opinioni, abitudini che sono altrettante gabbie di scherno ed empietà. Come dimostra, in modo straziato e paradigmatico quell’altro capolavoro pirandelliano che è “L’uomo dal fiore in bocca”, liddove un uomo ‘maturo ma non anziano’ inizia ad amare la vita proprio dal momento in cui gli viene diagnosticato un tumore maligno.
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Facendo sì che tale amore si faccia sdegno verso quel genere di umanità che se ne crede immune – e che, da Dostoewskij (e Kierkegaard) in poi, resta acquisita come ‘malattia del vivere’, ‘vizio assurdo’ di una condizione ontologica che attraverserà il novecento con esperienze che vanno da Svevo a Benco da Pavese a Houellebecq. In una rigida,fiera accettazione del proprio vulnus che rinuncia lucidamente ad ogni sollievo di ordine metafisico, spirituale, religioso.
Tesi che son qui elaborate da Gabriele Lavia in un fremente corpo a corpo con lo scrittore siciliano, di cui si inframezzano altre pagine dalle ”Novelle per un anno” corredate da incursioni filosofiche nel cuore pulsante di quella cultura tedesca di inizio ‘900 così importante nella formazione del giovane- Pirandello, studente a Bonn. “Il riferimento principale è a Nietzsche e soprattutto ad Arthur Schopenhauer”- afferma Lavia. Mentre l’asse portante della ‘cognizione del dolore’ è il dialogo tra la vita e la morte, tra malato e ‘viziato dalla sofferenza’: quindi “l’inutilità del vivere che diventa rabbia e disprezzo per la vita, soprattutto per le donne che ne sono sorgenti” . Tema di aspra attualità (deplorevole misoginia del Pirandello-pensiero o timor sacro per una diversità di genere che egli percepisce biologicamente più forte?), anche nel suo contraddittorio divagare fra diritto all’ autodeterminazione e seduzioni dell’ eutanasia ‘plausibile, non blasfema’
Quanto al resto è tutto un ribollire di accessorie tematiche esistenziali : dalla ricerca della verità che “dipende dalla percezione e dalla luce che ci svela o ci deforma il mondo” al verso con il quale usare il cannocchiale (preferibilmente rovesciato) “per guardare il mondo alla maggiore distanza possibile”, pur se si tratta di un’illusione ottica, quindi di un autoinganno. Ed infine la decadenza del corpo e l’insostenibilità della vecchiaia, nostra e altrui, nella perpetua (consueta) lotta tra essere e apparire, mentre ‘le opere di misericordia’, affidate ai buoni uffici di madre chiesa (che delega alla ‘pia donna’ l’ipocrisia di fingersi amante) disvelano l’ultima trappola del comune naufragio sub specie di paternità estorta alla maniera delle api regine.
Straordinario Gabriele Lavia-la classe non è acqua- nel rendere discorsivo, colloquiale, mimeticamente consequenziale questo gioco ‘dal sottosuolo’ in alto equilibrismo della parola, tesa sulla corda circense del pensiero eretico. Ed esposta all’abisso della Grande Vertigine come partecipe di un esistenzialismo ateo (Sarte, “L’essere e il nulla”) che affida al teatro una gravosa missione di proselitismo eretico.
Applausi scroscianti per uno spettacolo che non consola, ma aiuta a pensare da alte vette- senza paracadute.
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“La trappola” da Luigi Pirandello Adattamento e regia Gabriele Lavia Con Gabriele Lavia, Giovanna Guida e Riccardo Monitillo Scene di Alessandro Camera. Costumi di Andrea Viotti Musiche di Giordano Corapi Luci di Giovanni Santolamazza. Teatro Argentina di Roma