di Valerio Refat
La guerra energetica che da più di un decennio oppone la Russia agli ex satelliti dell’est è arrivata all’ennesima svolta. La chiusura del Druzhba, oleodotto utilizzato da Mosca in epoca sovietica per rifornire i Paesi dell’Europa Orientale, rischia di causare una crisi degli approvvigionamenti petroliferi in Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e perfino in Germania, dove il calo delle forniture ha provocato un deciso rallentamento dell’attività di raffinazione negli importanti impianti tedeschi di Leuen e Schwedt.
L’interruzione del flusso di greggio nell’infrastruttura che per decenni ha garantito la sicurezza energetica dell’Europa Centro-Orientale è dovuta alla messa in funzione a tempo di record dell’oleodotto BTS-2. La conduttura nuova di zecca, inaugurata il 1 aprile da Vladimir Putin, consente a Mosca di convogliare gli idrocarburi provenienti dalla Russia centrale nel terminal di Ust-Luga, nei pressi di San Pietroburgo e di lì, attraverso navi cisterna, verso il porto di Rotterdam, tagliando fuori i Paesi più ostili alla politica del Cremlino.
A farne le spese la Repubblica Ceca che, nei primi dieci giorni di aprile, ha dovuto fare i conti con un calo dell’80 per cento delle forniture di idrocarburi, la Slovacchia che si è vista ridurre il flusso di oro nero del 35 per cento e la Polonia, dove il crollo degli approvvigionamenti ha causato significative ripercussioni nelle raffinerie di Danzica. Praga ha fatto sapere che, per scongiurare il pericolo di una crisi energetica, dovrà rifornirsi nei terminal petroliferi di Trieste e di Fiume, con un aumento dei costi non indifferente.
L’interruzione delle forniture all’Europa Centrale rappresenta un nuovo ganglio della tenaglia congegnata da Mosca per costringere un’Europa sempre più assetata di energia ad accantonare progetti avversi come il Nabucco per affidarsi interamente allo strapotere di Gazprom, braccio energetico del Cremlino. Il gasdotto North Stream, inaugurato lo scorso novembre, è destinato a trasportare in Europa Occidentale 27,5 miliardi di metri cubi di gas l’anno, che raddoppieranno a partire dal 2013. E nella parte meridionale del Vecchio Continente, a partire dal 2015, sarà South Stream a fare la parte del leone, collegando i ricchi giacimenti del Mar Nero con la Slovenia attraverso la Bulgaria e la Serbia, senza attraversare il territorio ucraino.
Nel corso della prima riunione del Cda di South Stream, svoltasi ieri a Mosca, è stato nominato presidente l’ex sindaco Spd di Amburgo, Henning Voscherau. Entrano a far parte del board Paolo Scaroni per l’Eni, Alexei Miller e Alexander Medvedev presidente e vicepresidente di Gazprom, Henri Proglio per la francese Edf e Harald Schwager per la tedesca Basf.
Per aprirsi la strada nel cuore dell’Europa Meridionale, Gazprom sta trattando l’acquisizione di Depa, l’azienda greca per la distribuzione del gas, anche se Miller e Medvedev hanno messo in guardia le autorità elleniche che non hanno intenzione di sborsare un euro in più rispetto al suo reale valore di mercato che, secondo gli esperti, si aggirerebbe intorno a 1,5 miliardi di euro. Negli ultimi anni il raggio d’azione di Gazprom si è allargato anche alla Turchia, Paese che dal 2001 ha triplicato i consumi di gas e che per due terzi dipende dalle importazioni russe. Il gigante del gas ha annunciato nei giorni scorsi che sta mettendo a punto progetti per la costruzione di un grande deposito di idrocarburi in Anatolia.
Per quanto riguarda il promettente mercato dell’estremo Oriente, la società russa ha sottoscritto un accordo alla pari con il Vietnam per sfruttare i giacimenti di gas localizzati nel Mar Cinese Meridionale. La trattativa è nata dal tentativo, da parte di Hanoi, di disinnescare un potenziale conflitto con la Cina, che ha sempre rivendicato il controllo su quel tratto di mare e rappresenta la dimostrazione che la diplomazia del tubo messa in atto da Mosca è destinata a propagarsi in territori fino a ieri impensabili.
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